Poki (canto alla donna nell’ombra)

Sei nell’ombra
di una foglia
tu, che levi il vento
alle colline ‘la mattina

Nell’ombra fra i colori
della nebbia
cerchi un nome
e trovi me

mi trovi e poi
mi sbucci
mi ferisci
mi dondoli
mi schiacci
mi pospòni
mi allacci
mi confondi

Sei nell’ombra
che sguardi, nera,
le occhiate buie dei pagliacci
di Pinocchio
delle agane oscure
lungo Lisonzi e Judrii
sul bordo del Nilo
sull’orlo del Cuar
altrove

lenga di petarus
ombrena di ramaz
cunfin
piera zala di muscli
di licheni

cerbiatti e cinghiali
cgil e fiom
e storie di paese
punk
e un toc di dint tai lavris

con la macchina
tossendo qui mi attendi

mi sfogli
mi guardi
mi accendi

È già tardi
gostilna
dolina
propusnica
usma
privata
cantina

Nel bosco mi porti
io vecchio
ed un nome mi dai
e un cognome
ed un nome ti do

e c’è il suo perché
il percome
che, dioboe,
si esiste.


Raffaele BB Lazzara Cormons, Novembre 2014

Un Linguaggio autonomo

“ …tutti i lama del Tibet riuniti possono scuotere sotto le loro sottane l’apocalisse che han preparato …”
(A. Artaud)

Federico Tavan, se voleva, sapeva farsi ascoltare.
Sarà che diceva cose che nessuno si sarebbe sognato di ignorare.
Sarà che sapeva come dirle e come scriverle, le cose che voleva dire.
E sapeva in quale lingua scriverle, nella sua, che dopo tanti anni è anche un poco la nostra … o no?

Federico Tavan è stata una intelligenza singolare che ha indicato luoghi non comuni e aperto inedite visioni sulla vita ma, direi, soprattutto sulle ipocrisie della nostra società, e, in particolare di certi ambiti e sistemi.

Il mio incontro con lui mi ha radicalmente cambiato la vita e mi ha dato prospettive divergenti sulle quali ragionare.

Qui non parlo di un dato estetico, non solo almeno, quanto di un dato profondamente politico.
E non solo e non tanto perchè Tavan era un proletario orgoglioso di esserlo e dichiaratamente anarchico ma perchè tutta la sua vita e il racconto che ne fece fra poesie, lettere ed altri scritti come le sue memorabili performance ed il suo ultimo silenzio, lo sono.

La sua poesia non aveva nè ha bisogno di esegeti, critici letterari: le sue parole sono chiare, dirette, si spiegano da sole.

Parole autonome nel discorso.
Autonome nel linguaggio, e nella lingua.

È stato triste vedere quest’uomo, nonostante le sue reiterate denunce anche pubblicate da chi evidentemente non ne comprendeva il significato, è stato triste vedere questo nostro maestro e complice, questo compagno di giochi infuocati, affondare nel vuoto di contesti sociali e culturali a lui estranei, tanto da scegliere, infine, il silenzio.

Un uomo che scriveva di amare talmente le parole che se le sarebbe mangiate, arrivò a scrivere “[…] è arrivata la nausea delle parole […] Le ultime poesie lette in pubblico le leggevo con conati di vomito.”

Era il più grande fra di noi e nessuno ha avuto il coraggio di proteggerlo, forse per rispetto, per pudore, ma la vacua dabbenaggine delle conventicole provinciali l’ha portato a soffocare nel silenzio.

Si, è stato triste vedere questo intelligentissimo ermeneuta della nostra pochezza culturale su ogni prospettiva pedagogica altra, libertaria, autonoma, venir depotenziato del significato delle sue stesse parole.

Depotenziato del suo pensiero creatore di significati liberati e connessioni straordinarie.
Depotenziato da coloro che forse, volendo salvarlo da se stesso, hanno innescato nel suo straordinario fisico sovversivo la depressione.

Le sue parole, comunque sono ancora lì, per tutti.


Raffaele Lazzara
pubblicato su A rivista anarchica , ottobre 2014

Tavan poetic strike, Avost 2014

azion poetiche di sotrazion creative

Chist an, dopo dal il lavor cul coletif Chialtres pal libri disore Federico Tavan e la esperience usmatiche e dut ce ch’al è sucedut ta chei mes cà, o ai dicidut di taca cunt un siopar – azion di sotrazion creative.

Di cumò indevant o lassarai piardi la scriture poetiche e i meeting poetics, partecipazions e publicazions a robis leterariis e vie disint.

Parcè che no si puès fa puisie int une societat che dopre un omp cemut ch’ al ere Federico Tavan e podopo lu siare int une chebe,  dome par celebralu e santificalu – lui, eretic e luteran – dopu muart tal marcjadut provincjal dal spetacul e da culture di chei ch’a podin, in pins disore di chei che no podin plui.

Dulà erino ducj cuant che Federico Tavan al viveve prime int un lager psichiatric a Manià, dopo, in t une cjase di polse par vecjus cul alzheimer?

E dulà erio jo?

Par cui, la robe mior di fa al è, cuant che no si sa plui ce disi, sta cidins.Sentasi su la panchine plui vecje e fumasi un spagnolet.

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Raffaele BB Lazzara,  Monfalcon, ai 26 di Avost dal 2014

Bastart di furlanat!

I friulani sono moderamente ossessionati dalla loro identità quanto poco critici e consapevoli di come, quando e perchè questa esista.

A frequentarli bene viene da dire che, a parte la rissosità, l’alcolismo e il tratto culturale longobardo della faida – e, forse della depressione pannonica – della millenaria storia del Friuli a questa gente non resti che la rassegnazione e la rabbia.

Come ogni cultura luterana, calvinista o pseudoprotestante ( cfr. Weber ) la cultura friulana di oggi è ossessivamente efficentista, colta da un’ansia da prestazione irrazionale quanto maniacale.

E’ l’efficentismo dei poveri e degli ossessi, coloro che accumulano il nulla per autodeterminarsi.

L’etica del lavoro, ovvero la mistica del lavoro friulana, funzionale al sistema capitalista nei suoi ambiti marginali o terziari, è il rifugio di una società contadina negata dalla storia e sopravvivente senza punti di riferimento culturali, etici, spirituali.

L’etica del lavoro in Friuli è ossessione ed efficenza, ansia di esistere muovendosi sullo sfondo immobile del mondo dei padri e delle madri, assassinato e vilipeso, dimenticato.

Violentato fisicamente il territorio delle Basse Terre, del Medio Friuli, delle Colline e dei Colli Orientai, del Collio, dei monti e delle valli a Settentrione, distrutta la cultura agricola, contadina, artigianale e artistica della ruralia ladina, al rustico friulano colonizzato ed ipervitaminizzato, asfaltato, fondiarizzato, meccanizzato, forse persino informatizzato, è stata data l’ossessione dell’efficenza inutile.

Prima si moriva di fame disboscando le montagne, oggi si muore di stress temperando le matite nello studio notarile.

Ma il friulano non demorde e continua a farsi distruggere: fottuto nell’artigianato dall’industrializzazione globale, fottuto nella produzione agricola dal medesimo sistema, fottuto nella capacità di costruire una casa come sapeva, diventa imprenditore, sfrutta i suoi immigrati che poi brucia in piazza quando può e, con la sua terra e la sua cultura brucia anche la capacità di avere una morale.

Cosa resta di questa cultura lapidata, violentata e distrutta?

La lingua.

Il friulano.

Il friulano, sistema linguistico ladino dalle molte vivaci varianti è moribondo.

Fino a pochi anni fa era una lingua senza legge.

Oggi questa lingua è anche e democraticamente legiferata.

Tutto ciò non servirà: legiferata dai politici, finanziata dai padroni, accolta senza sapere dalla massa di colpevoli impotenti, questa lingua non servirà a nulla.

Perchè dietro alla lingua non c’è più una cultura.

Perchè dietro alla cultura della miseria furlana c’è la lingua rotta del nulla.

Perchè la poesia, il motore di ogni lingua e di ogni cultura, è stata assassinata, costretta a vivere mendicando un poco d’aria per evocarsi.

La lingua: un’altra lingua allora, per il furlàn bastart, un’altra lingua allora per un’altra identità: libera, in guerra col sistema sociale col quale dobbiamo confliggere, col sistema limguistico impoverito e legiferato che ci identifica come ossessionati servi del capitalismo più radicale e suicida.

La lingua poetica, la nostra, la nostra arma di battaglia per uno scontro che ci vedrà cadere comunque in piedi: non identificabili attraverso le grammatiche delle vostre povere lingue da bankomat.

Chialtres

Trima man trima
che li peraules
i esce contentes.
No faviele de vo
no meretâ nua
e faviele de chiei chi piert.
E faviele de chialtres.
Chiei cu la musa
bieliscima.
Granda coma al sorele
ca rît anc’ de dolour
spiciota can 38 dinc’
a ju piert par strada
barba fata e no fata
da nin vizious de cjcolata.

(“Patrie dal Friûl” n. 7, 1993)

Gli altri. Trema mano trema / che le parole / escono contente. / Non parlo di voi / non meritate nulla / parlo di quelli che perdo. / Parlo degli altri. / Quelli con la faccia / bellissima. /  Grande come il sole / che ride anche di dolore / risata a 38 denti / li perdo per la strada / barba fatta e non fatta / da bimbo goloso di cioccolata.

par-poki

Pocahontas

In realtà Pocahontas si chiamava Matuta o Amonuche (nomi schiettamente furlani).Il soprannome  in lingua powhatan significa “piccola svergognata” (non ci credo manco un po’). Comunque, a   dodici anni salvò la vita a un Milanese accerchiato da guerrieri furlani che volvano ucciderlo ma lei si gettò su di lui per poteggerlo…..

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