Mattutino ( Collio friulano al mattino)

Come l’uccello del mattino
che canta nella nebbia l’oro in bocca
così canta il bambino che suona i suoi tamburi
trabocca di sangue e vino la sua bocca margherita
e il suono risveglia le colline, alza le nubi, sa di vita
cenciando duri si rallegrano i questuanti neri
fra la meraviglia del destino e la chiglia della nave di rubino
che riporta alla tua porta l’escluso e poi l’imbocca
di parole ragnatele in una lingua che elemosina il ripudio
ed il cammino senza scorta d’ogni cuore buono
senza patria senza porta senza graffi di parole a un cuore stanco
ed è a matita che spunto questo sudore clandestino
‘ché dai colli discendono le fate
per fare dei prati lente rugiade di gemme e di zaffiro
nell’aria azzurra che respiro
e questo andare
in faccia al tondo mondo di bambole e bastardi
che “succhiami le croste fra i capelli radi”
che “svelami le tue caviglie” sempre tardi
e il ballo incombe sulle luminarie
fra i posacenere, Bacco, tabacco e Venere
piccola ala di piccolo uccelletto
apri la tenda, scoperchiami il tetto
e fra i diamanti nell’erba marcia e calda
acida e rara
spacca la tazza e ammazza la talpa.


Raff BB Lazzara, Cormons 2011

Mattina nazista

Alzando la tazza in alto, brindando.
Brindando il brindisi delle ventidue e venti.
Le bottiglie vuote nel bidone di plastica, fumandone, rotolando.
Ancora una manciata di pasticche e un sorso di vino nero.
Non voglio sapere.
Domani so che non saprò, manco un’idea.
Musica musica.
Brucia, abbrucia la cucina.
A letto senza cena?

Ricordo poco ma so che giocavo un gioco,
fra sigarette spente e lanci di bottiglia.
Vuota e rotta sulla pelle bianca, gonfia,
mamma, pensavo, mamma.

C’è chi ci crede e chi no.
Io, dirò che alla mamma non ci ho mai creduto.
O a Iddio, sempre pasciuto.
O all’Io e al Super io freudiano.
O ad avere una seconda mano.
Non mi mai piaciuto battere le carte.
Non ci ho creduto.
Nell’omo bòno, nell’innocenza o nel perdono.
Le mie carte non le ho mai giocate bene.

Sveglio alle sei: pigola un qualcosa.
Sveglia, telefono, campane.
Le lenzuola sporche.
Sudato.
Merda: sangue.
Tocchi di vetro e briciole.
Mi alzo scoprendomi vestito ma non calzato.
Abbranco le braghe e infilo le scarpe, le chiavi nella toppa, le scale.
In strada di corsa verso la stazione.
Vomitando ogni tanto dentro in un androne, a lato, in banda ad un cantone.
E poi in stazione.
Correre il convoglio.
Saltare sul vagone.
Tremando cercare un posto fra i cinesi che dormono e gli autoctoni che masturbano un cellulare.
Saltellando barcollare fino al cesso.
Disgustosa e fetente cabina ferroviaria in cui, serrate le membra, cagare.
Prima, e poi cacare più lievemente schizzando sangue emorroico e birra scura.

Prima o poi giungere al luogo, al lavoro, dove si guadagna il pane.
E tutto il resto.
Irregolare, indipendente, precario ma senza fame.
Quella è per gli altri.
Per i prescelti è magari, come per me, la sete.
O le pasticche per dormir o le pasticche per questo e per quello, fate voi.
Pasticche per tutto.
Per non bere più, antiabuso.

O per uso di prestanza gagliarda, prestanza sensuale, per gioia carnale.
O per la pressione, il nome ed il cognome, il bell’andare.
O per il troppo che stroppia.
O per il poco da fare.
E, comunque, per il molare ed il male.
E, sempre per sempre, per lavorare.

L’ ultima volta che vomito è nel lavabo del bar “Estrella del Norte”.
Ho già evaquato nella turca e sputato nella merda.
Nella mia.
Poi mi sciacquo la bocca alla cannella.
Mi lavo i denti lungo la barra, un cappuccino, a colazione.

Poi esco, e c’è il vento.


* da Raffaele BB Lazzara, Cormons, Friul, 2011 *

Appunti per un Orto Salentino

“difint i palés di oràr o aunàr I nons dai dius grecs o cines Mor di amour par li vignis E i fics tai orts” (P. P. Pasolini)
 “My my, hey hey Rock’nroll is here to stay” (N. Young)

Con i piedi ancora incerti, sceso dal treno nella bella e rossa terra degli ulivi, muovo i primi passi imprecisi, zoppico barocco dietro allo zio che mi porta nell’orto. L’ora è panica, il cielo è azoto blues. Sono nel silenzio di questa campagna aperta, abitata da pietre, sabbia, cardi e carrubi, finocchi e sterpi. Megaliti.
Un bosco di ulivi monumentali alla mia sinistra, una vigna circondata di fichi, mirti e ginestre alla mia destra. Tacere è santo in questo luogo. Tanto silenzio e poi, come in sogno, il ritmo quieto delle ali degli uccelli, il mare. Nella terra che dissero del rimorso, con ironica e civile lentezza le persone fanno la fila per pagare alla cassa del fornaio.
Sul frigorifero c’è una madonna, protettrice delle bibite. E al bar la ragazza mi restituisce una moneta: “qui l’acqua non si paga” dice. Ma il pozzo sa di sale. La terra diviene polvere, il deserto avanza. All’ombra si sorseggia un caffè, si fuma una sigaretta. E’ caldo.
Il sole danza nel cielo. Le sorelle parlano nella lingua olimpica e tragica del mare nostro, col suono antico e vero di una allucinazione. Poi sorge la luna e torniamo nell’orto a camminare tra le sue pietre emozionati in quel biancore, fumando. E poi il dì di festa. In un nodo, un fiocco, un gomitolo di tessiture pelagiche saltano fuori gli scazzamurrieddhi dalle specchie: poeti, scrittori, musicisti, un gruppo di comunarde di Urupia coi loro vini famosi, bolognesi molestatori, donne in cucina, bimbi piromani, l’edicolante barbuto e Milena. Lo zio ha lavorato, ha portato l’acqua, la luce elettrica ed ogni cosa, vuoi per la commedia che per la tragedia. Blasfemo come sempre sul sacro suolo del tondo mondo, spengo le mie cicche sulla terra dell’orto e accartoccio lattine di birra. Parole sante.
Cosa ne abbiamo fatto del nostro orto? L’orto che abbiamo ereditato dai nostri padri e dalle nostre madri? Un posteggio d’asfalto? Un centro commerciale? Come scrisse una grande poetessa dovremmo domandare agli dèi solo il piacere di perdonarci. Se non lo sappiamo noi, loro lo sanno il perché. Noi, inchiodati alla nostra vita prigioniera di quattro illusioni. Dormienti. Poi, destati in un orto, sotto un cielo deserto.


Carissimo, ti mando gli appunti scritti a mano. Spero tu capisca la calligrafia. Scritto col cuore. Un grande abbraccio, a presto. Raffael.

Traduzione da P.P.Pasolini: “Difendi i paletti/dell’olmo e dell’alloro/I nome degli dèi greci e cinesi./Muori di amore per le vigne e i fichi nell’orto” Un grazie a Stiefin Moràt e a D. Dmùs Virùs.


Tratto da Orto dei Tu’rat

Morte sei buffa

Versione audio da
a0304695980_16
Verba Manent:
MORTE SEI BUFFA
Musiche Furlane Fuarte, 2007


Morte,
sei la beffa
che spaventa li córi
che fai santo chi bluffa
chi gioca
e camuffa la sua anima
per un piatto di zuppa

Morte,
sei buffa
ché accendi l’amori
che fai bello chi si tuffa
nel flusso intenso
e nei tesori
dell’umana truffa

Ma sei trippa per li gatti
morte,
morte stanca
sei sessantasei e ventisette
culo bello e
gambe storte di donnette
e sei ciò che manca
e non poco
alla mòssa dell’anca
ed alla gloria del cuoco


scjante 06.08.2011


wp_20160706_13_22_10_pro

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: