Alzando la tazza in alto, brindando.
Brindando il brindisi delle ventidue e venti.
Le bottiglie vuote nel bidone di plastica, fumandone, rotolando.
Ancora una manciata di pasticche e un sorso di vino nero.
Non voglio sapere.
Domani so che non saprò, manco un’idea.
Musica musica.
Brucia, abbrucia la cucina.
A letto senza cena?
Ricordo poco ma so che giocavo un gioco,
fra sigarette spente e lanci di bottiglia.
Vuota e rotta sulla pelle bianca, gonfia,
mamma, pensavo, mamma.
C’è chi ci crede e chi no.
Io, dirò che alla mamma non ci ho mai creduto.
O a Iddio, sempre pasciuto.
O all’Io e al Super io freudiano.
O ad avere una seconda mano.
Non mi mai piaciuto battere le carte.
Non ci ho creduto.
Nell’omo bòno, nell’innocenza o nel perdono.
Le mie carte non le ho mai giocate bene.
Sveglio alle sei: pigola un qualcosa.
Sveglia, telefono, campane.
Le lenzuola sporche.
Sudato.
Merda: sangue.
Tocchi di vetro e briciole.
Mi alzo scoprendomi vestito ma non calzato.
Abbranco le braghe e infilo le scarpe, le chiavi nella toppa, le scale.
In strada di corsa verso la stazione.
Vomitando ogni tanto dentro in un androne, a lato, in banda ad un cantone.
E poi in stazione.
Correre il convoglio.
Saltare sul vagone.
Tremando cercare un posto fra i cinesi che dormono e gli autoctoni che masturbano un cellulare.
Saltellando barcollare fino al cesso.
Disgustosa e fetente cabina ferroviaria in cui, serrate le membra, cagare.
Prima, e poi cacare più lievemente schizzando sangue emorroico e birra scura.
Prima o poi giungere al luogo, al lavoro, dove si guadagna il pane.
E tutto il resto.
Irregolare, indipendente, precario ma senza fame.
Quella è per gli altri.
Per i prescelti è magari, come per me, la sete.
O le pasticche per dormir o le pasticche per questo e per quello, fate voi.
Pasticche per tutto.
Per non bere più, antiabuso.
O per uso di prestanza gagliarda, prestanza sensuale, per gioia carnale.
O per la pressione, il nome ed il cognome, il bell’andare.
O per il troppo che stroppia.
O per il poco da fare.
E, comunque, per il molare ed il male.
E, sempre per sempre, per lavorare.
L’ ultima volta che vomito è nel lavabo del bar “Estrella del Norte”.
Ho già evaquato nella turca e sputato nella merda.
Nella mia.
Poi mi sciacquo la bocca alla cannella.
Mi lavo i denti lungo la barra, un cappuccino, a colazione.
Poi esco, e c’è il vento.
* da Raffaele BB Lazzara, Cormons, Friul, 2011 *
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