Intervista realizzata da Andrea Cardinale a Raff BB Lazzara, autunno 2009
Pubblicata nel libro “Il Blues dei Colli”, Blues Club 356, 2014 (ristampato nel 2016)
Raffaele, sei conosciuto per la tua attività di poeta underground ma suoni anche la chitarra: cosa hai cominciato a fare per primo?
Ho iniziato a fare queste cose quasi insieme da adolescente, quando vivevo a Milano; la poesia mi è sempre piaciuta come linguaggio anche sonoro, come linguaggio musicale, e fin da bambino mi piaceva imparare le poesie a memoria. Poi ho iniziato a scrivere, ho cominciato ad accompagnarmi con la chitarra e anche a suonare canzoni in generale. Era una cosa istintiva, c’erano delle cose che mi inventavo e facevo per gli amici, quando ci si trovava in giro con la chitarra al parco Sempione… anche al parco Lambro, ma meno, ah-ah! E poi suonavo un repertorio cantautorale come De Gregori e Guccini, mi piacevano anche Branduardi, Ron, Kuzminac (quello di Stasera l’aria è fresca) e Ivan Graziani, che fra l’altro è stato un grandissimo chitarrista.
E quali sono i primi concerti che hai visto?
Ero presente al concerto per Demetrio Stratos, il 14 giugno 1979, un concertone dove hanno suonato anche i primi gruppi della scena punk-rock italiana, con cantautori, jazzisti e ovviamente gli Area, che facevano musica più complessa e sperimentale, Finardi e gli Skiantos, che hanno letto delle poesie vestiti in frac. Ci sono andato con un mio amico, Giorgio Mascitelli -che oggi è un insegnante e ha scritto anche dei libri- e con mio padre, che ci ha tirato dietro perché eravamo quattordicenni. C’era un buon clima, anche se hanno fischiato Venditti perché eravamo a Milano e lui era già un po’ odioso in quanto romano e in quanto più commerciale, insomma si è preso un sacco di fischi. Però ero stato ancora prima, tredicenne, durante l’occupazione del Conservatorio di Milano, a un concerto di Gaetano Liguori, il pianista jazz che era una novità… e sempre al Conservatorio occupato c’erano concerti straordinari, ricordo ad esempio un concerto bluegrass. E poi Lou Reed a Milano, nell’estate del 1980. Purtroppo mi sono perso Bob Marley a San Siro perché ero a Parigi. E c’erano concerti gratis sponsorizzati dal Comune e dalla Federazione socialista del PSI: Joan Baez, Joe Strummer con una sua band improvvisata che ha fatto quasi tutto il repertorio dei Clash, con non tantissimo pubblico, fra l’altro… e molti anni dopo, nel 2001, ero a Milano per fare animazione coi bambini e così mi sono visto Manu Chao che suonava per il suo quarantesimo compleanno, poco prima del G8 di Genova. Un concerto straordinario, quattro ore senza un momento di silenzio.
Insomma, nasci a Milano e a un certo punto ti trasferisci in Friuli.
Sono nato in Germania nel 1965, figlio di emigrati friulani che a un certo punto sono tornati a Milano, così fino a trent’anni sono vissuto lì. Poi ho fatto l’Università a Bologna ma venivo spesso in Friuli a trovare i nonni a Monfalcone, d’estate e a Natale… andavamo spesso a Cividale e anche in Rocca Bernarda, uno dei posti più belli del Friuli. Quindi ho sempre avuto un rapporto con questa terra, finchè alla fine degli anni Ottanta ho conosciuto il giro di USMIS e mi sono detto: questi qui sono artisti friulani, creativi, anarchici… è il massimo, no? Da lì ho iniziato a collaborare con loro.
Hai collaborato anche coi Mitili FLK degli albori, specie con Guido Carrara.
Nei miei primi contatti con la scena friulana, i Mitili non c’erano ancora. Avevo ascoltato il Canzoniere di Ajello e Giorgio Ferigo, e anche altre cose più o meno melodiche, gruppi di folk revival come La Sedon Salvadie… l’incontro coi Mitili Folk (allora si chiamavano così) è avvenuto grazie al gruppo di Usmis (Paolo Cantarutti, Marc Tibaldi, Massimo Masolini) e avevo stretto un’amicizia molto forte con loro, specie con Guido Carrara e Alessandro Montello, con cui ci siamo visti poi anche a Milano, a Bologna… con loro ho inciso dei cori sul loro primo CD, il mitico Colôrs che è stato secondo molti uno dei dischi più importanti della nuova musica friulana. Però con Guido avevamo già iniziato un rapporto di scambio di testi -visto che apprezzava molto il mio lavoro poetico- quando per me lui era in buona sostanza ‘solo’ il chitarrista dei Mitili. Avevo già pubblicato qualcosa sulla rivista Usmis e su qualche fanzina; alcune cose erano state tradotte in friulano, perché all’epoca non avevo una dimestichezza tale col friulano da pubblicare dei testi completi in questa lingua. In seguito sono venuto a vivere in Friuli per essere più vicino a questa scena, di cui già conoscevo di fama personaggi come Fabian Riz e Pit Ryan, il capitano dei Mad Men Blues, perché c’erano queste cassette del Premi Friûl che mi regalava Paolo Cantarutti. Così ho cominciato ad ascoltare questi artisti, che poi sono diventati degli amici. Devo anche dire che, dopo la mia scoperta del blues a vent’anni grazie ai dischi di folk rurale e ai libretti delle edizioni Albatros (di cui conservo ancora alcuni vinili e vario materiale), negli anni Ottanta già a Milano avevo fatto delle serate di musica blues, poi avevo un po’ lasciato perdere queste cose, ed è stato Alessandro Montello che mi ha stimolato a organizzare un mio repertorio e a portarlo in giro.
Come si può spiegare, in poche parole, il progetto Usmis?
Usmis è stato un progetto molto complesso: nasceva dall’esigenza politica di un’area libertaria -ma nel tempo stesso “nazionalitaria friulana”- di comunicare anche elaborazioni filosofiche attraverso la lingua friulana e tutte le forme di espressione possibili e immaginabili, in un progetto che potesse essere apprezzato ovunque e comunque, anche in ambito internazionale. Infatti si fecero video usmatici, che vinsero premi in Olanda e Slovenia… Usmis l’ho seguita fin dall’inizio quando sono venuto in Friuli, prima era qualcosa che seguivo da lontano. L’esperienza con quella denominazione in realtà è finita: Usmis aveva aggregato tantissimi soggetti che però ovviamente non si ritrovavano sulla stessa linea teorica dei fondatori di questo progetto, ci sono stati degli scontri e delle grosse polemiche e quindi di fatto questo progetto è finito formalmente, ma per alcuni di noi non è mai finito. Infatti io e altri continuiamo a occuparci di queste cose, e lo spirito è sopravvissuto all’interno di un’area di artisti visivi, scultori, poeti, scrittori e ovviamente musicisti.
Oltre alla poesia hai composto della buona musica, in particolare due pezzi come Animis Salvadis e Ploe Scalembre. Animis Salvadis ha un andamento reggae e un’armonia che ricorda No Woman No Cry di Bob Marley, mentre Ploe Scalembre è una vecchia incisione riproposta sul disco Tananai, un bluesaccio crepuscolare che suona ancora fresco… ne ricordo una grande versione live a Mortegliano, fatta da te alla chitarra e voce e Guido al basso.
Quella è la prima incisione, fatta per il Premi Friûl del 1996. Ho partecipato a due Premi Friûl, la prima volta appunto con Animis Salvadis, una mia visione un po’ romantica della vita in Friuli, e l’anno dopo con Ploe Scalembre. Il pezzo di Marley ce l’avevo in testa e l’idea era quella di fare un pezzo reggae, poi sul momento non ho trovato l’arrangiatore giusto, per cui è venuta fuori una canzone se vogliamo più pop. Infatti non amo tanto questo pezzo, è una canzone riuscita a metà. Invece Ploe Scalembre è un vero e proprio blues, ed è forse il pezzo che amo di più di tutta la mia produzione, in assoluto. É un pezzo molto semplice da fare, anche con chitarra e voce, e l’abbiamo arrangiata con Guido, che suonava un basso-carriola, uno strumento costruito da Loris Luise, percussionista dei Mitili. Loris lavorava con Nico Colle, un bravissimo scultore, e insieme hanno costruito tantissime cose lavorando soprattutto il legno. Verso la metà degli anni Novanta hanno costruito anche degli strumenti musicali che erano sia strumento musicale sia anche ‘oggetto’, fra cui appunto il basso-carriola che è una carriola e un contrabbasso al tempo stesso, e dà quel particolare suono, quel toing- toing. In questo pezzo c’è anche un bravo chitarrista elettrico della Bassa, Francesco Bragagnini, e anche delle percussioni credo suonate da Michele, fratello di Guido e grandissimo batterista nei Mitili. Ne abbiamo fatte tante versioni dal vivo, anche diverse… ho avuto modo di suonare questa canzone veramente nei posti più strani, l’ho suonata anche in Sud America al “Samovar da Rasputin”, un locale blues alla Boca di Buenos Aires pieno di studenti. L’ho suonata durante gli intervalli nello spettacolo di un gruppo blues argentino, usando una Fender Stratocaster e spiegando prima la storia nel mio castigliano un po’ strampalato. Il pubblico ha apprezzato, erano le quattro di mattina e a quell’ora si apprezza un po’ tutto! Questo posto era di un robivecchi bielorusso, che poi l’ha trasformato in una pizzeria e infine l’ha ceduto a un ragazzo che ne ha fatto il locale del blues a Buenos Aires, che non è proprio un posto da blues.
Come autore di poesie sei molto prolifico. Una poesia nasce di getto o prima deve essere pensata?
Deve essere pensata e deve essere di getto, in alcuni suoi aspetti. Sicuramente per me è sempre importante scrivere avendo delle idee e delle cose da raccontare, ma anche seguendo un ritmo, una musica che si crea durante la scrittura: questo vuol dire che per scrivere bene prima si deve leggere tanto, ma anche ascoltare molta musica. La mia poesia è sempre stata legata alla musica, alla vocalità, all’oralità, alla lettura ad alta voce.
Come facevano i poeti della Beat Generation…
Sicuramente, ma come hanno fatto i poeti sempre, come facevano i poeti greci che mettevano il ‘Kai’, che-che-che… che poi, attraverso altri poeti, Ginsberg scopre essere il bordone della poesia: “O, questo, quello e quell’altro; o, panino farcito macchiato di maionese, o… l’o oppure l’e, il punto che dà il ritmo alla frase anche quando il verso è libero. La ricerca della musicalità è propria della poesia, la poesia non-musicale è letteratura. Nella mia poesia si ritrova la storia della letteratura italiana perché scrivo in italiano, c’è la storia della letteratura friulana perché scrivo anche in friulano e di quella francese o di quella dei beat americani o di tutta la letteratura americana. Sto lavorando da tempo a un progetto che si chiama Merecans che contiene testi tradotti in friulano dall’inglese, per quanto è possibile, da Emily Dickinson a poeti storici come Walt Whitman, a poeti più recenti come i Beat, Charles Bukowski e altri come Tom Waits, Bob Dylan e Neil Young. C’è un mio interesse verso il lavoro di traduzione di testi poetici che però sono anche canzoni, canti… si tratta di recuperare la musicalità di cose scritte in altre lingue, di tramutarle insomma. Ma la poesia è legata alla musica, sempre e comunque.
Ti senti un anarchico? L’anarchia è dei giovani o dei vecchi?
L’anarchia è un concetto ancora attuale e può stare in tante cose, sia dei giovani sia dei vecchi. Paradossalmente può essere, oggi come oggi in Italia, la difesa dello stato sociale… così uno può dire “Sono anarchico e difendo lo Stato”. Sono posizioni non saprei come chiamarle, ‘anarco-riformiste’, che però hanno un loro senso sull’idea di società. Queste sono elaborazioni teoriche di Noam Chomski, grande linguista americano e anarchico. Lui dice che bisogna difendere tutto ciò che è sociale all’interno della nostra società, quindi anche i servizi sociali dello Stato. Però l’anarchismo è anche vivere rapporti solidali con gli altri senza che questo dipenda da una imposizione burocratica, legiferata e fissa.
Si può dire che i bluesmen sono anarchici, o che comunque hanno sia la voglia di esprimere ciò che sentono che la volontà di difendersi da una autorità oppressiva?
Il bluesman è anarchico nella sua volontà individuale, nel suo andare con la donna del vicino, e anche in una certa disperazione esistenziale, depressiva o rabbiosa… comunque il bluesman canta, quindi racconta delle storie e le regala anche agli altri. Io sono sempre emozionato quando finisco di leggere una bella storia o ascoltare una bella canzone e dico: questo, cazzo, ci ha regalato qualcosa di grande, questo è un artista e non solo un tecnico, è uno col cuore. Il blues ma anche il jazz sono forme anarchiche di musica, perché prevedono nella loro struttura minimale l’improvvisazione, prevedono tutta una serie di possibilità che vanno sempre avanti. Oggi il jazz in Italia è una musica molto rielaborata da tanti bravi musicisti e assume nuove sonorità che si mescolano con le musiche etniche e tout se tien: si parte dalle musiche mediterranee, dalle tarantelle, fino alle musiche africane, poi ritroviamo le bande irlandesi, il voodoo… insomma la
musica gira, gira, gira e macina cose a volte più formali, quando diventa musica da aeroporti.
La famosa Music For Airports di Brian Eno… insomma, col blues non puoi barare, non puoi fare finta di avere qualcosa da dire.
No, assolutamente no. É chiaro.
Ti dà maggiore soddisfazione calcare un palcoscenico o improvvisare in una frasca?
Quando leggo le mie poesie o suono o presento un mio progetto sento di avere comunque delle responsabilità, soprattutto verso uno che sta lì ad ascoltarmi perché magari mi conosce, ma la cosa più emozionante sono le persone che non ti conoscono e ti vengono a dire “Mi è piaciuto quello che hai fatto”, perché così hai incontrato una persona nuova. Ma è molto bello anche vedere la soddisfazione negli occhi di quelli con cui suoni o comunque fai delle cose da tanto tempo, i sorrisi, le occhiate delle persone con cui hai stabilito una relazione di amicizia e collaborazione. Che questo avvenga in un teatro o in una frasca è abbastanza indifferente, ovviamente dipende anche da cosa proponi. Quello che abbiamo fatto qualche mese fa all’Università di Udine, per esempio, è stato straordinario.
C’ero anch’io. Come siete finiti lì, tu e i tuoi colleghi di poesia?
La Facoltà di Lingue ci ha convocati per qualcosa che aveva a che fare con l’Africa, noi non sapevamo neanche cosa fosse! Questa specie di convegno interetnico era tutto organizzato in inglese, e avevamo come presentatrice una docente di Bologna che di friulano non sapeva niente. Siamo arrivati lì tutti quanti, belli volenterosi ma senza sapere bene cosa fare, e abbiamo improvvisato leggendo delle cose in friulano, qualcosa che è stato molto apprezzato da tutti, studenti e professori, e anche da questi poeti di origine africana e caraibica che non potevano capire il friulano. Alla fine tutto ha funzionato come se ci fossimo messi d’accordo prima, certamente aver lavorato assieme per quindici anni è una cosa che ti aiuta. Di recente abbiamo fatto un’altra performance ad Andreis, dalle parti di Federico Tavan, in una serata dedicata a lui in cui è venuta tanta gente che ci ha ringraziato e ci ha detto: bene, l’anno prossimo lo facciamo di nuovo.
Tavan è uno che avrebbe potuto nascere nei Colli Orientali… mi ricordo di una sua performance urlata all’ex Centro Sociale Occupato di Udine per la presentazione dell’ultimo numero di Usmis, nel 1996. Noto delle affinità fra la sua poesia e la tua.
Tutta quanta la nostra generazione di poeti quaranta-cinquantenni è stata influenzata da Federico Tavan, dal suo modo di porsi in maniera provocatoria, anarchica però umile… dal suo saper raccontare il dolore ma con tantissima ironia, saper raccontare la morte, come nella famosa poesia “Ho paura di vivere, ho paura di morire: farò un suicidio mancato così li frego tutti e due”, ah-ah! Un dolore vero, vissuto… oggi Tavan vive protetto in una comunità psichiatrica, non scrive più, non parla neanche più ma forse così è un po’ più sereno di quando faceva il poeta, chi lo sa. É una persona che ha sofferto, ne ha scritto e ha saputo mettere in campo la propria sofferenza, e ha dato tanto a tutti noi. Infatti, personalmente, quella sera ho dovuto censurare le mie poesie perché mi sembravano troppo di Tavan, troppo vicine alle sue, e ho dovuto andare a cercare delle cose diverse (Tavan ci lascerà il 5/11/2013, Ndr) .
Parlando di poesia o di blues prima o poi ci si imbatte nella questione alcool e/o droga, che sono un modo per superare la timidezza o l’ansia da prestazione, ma possono anche essere un ostacolo alla creatività. Qual’è la verità?
Il legame fra il blues e le più disparate sostanze psicotrope c’è sempre stato, ma chiaramente non tutti quelli che fanno poesia o musica le usano. Per un poeta o un musicista che ha acquisito determinate tecniche non credo che sia poi tanto influente, per certi versi, ma dal punto di vista della dimensione emotiva, sicuramente l’alcool e
altre sostanze di vario tipo sia legali che non legali possono avere una loro funzione. Possono essere un modo per superare l’ansia da prestazione nel momento dell’esecuzione, però a me è successo tante volte di recitare o suonare da lucido e di fare ugualmente qualcosa di buono. Certo, a volte un ‘aiutino’ mi ha dato quello snait che ci sta anche bene, anche se l’alcool è qualcosa che poi anche t’ammazza, come ben sappiamo. D’altronde, anche quelle sono scelte e di qualcosa poi dobbiamo morire… alla fine, siamo persone adulte e facciamo le nostre scelte.
I Trastolons: chi sono, chi erano e come si possono descrivere a chi non li ha conosciuti?
I Trastolons sono stati un gruppo di poeti e musicisti che fra il 1995 e il 2002 hanno fatto performance di musica e poesia sui fiumi, nei campi, in feste che abbiamo organizzato nei boschi anche di notte, sia in Friuli che nella ex Jugoslavia e in Sud America. Cose abbastanza particolari! Abbiamo pubblicato dei libri e dei dischi, finchè l’esperienza è finita perché tutti noi abbiamo sentito l’esigenza di fare delle cose diverse, pur continuando a collaborare fra di noi e facendo ogni tanto delle reunions, in cui c’è sempre qualcuno che all’ultimo momento non può venire. A volte manca la Lussia, a volte manco io, a volte non c’è Guido perché è in Sud America, eccetera.
Insomma, un gruppo poetico mobile da combattimento.
Sì, un gruppo di poeti strutturato come una blues band, una jazz band o una rock’n’roll band.
“Poeti senza legge per una lingua caraibica”, come sta scritto sulla copertina del libro Tons Trastolons.
Quello è stato il manifesto dei Trastolons che ho redatto ormai tanti fa, nel 1996, dopo un anno che ci si frequentava e si facevano assieme delle cose. In seguito ho incontrato gruppi di giovani poeti di altre parti d’Italia, anche molto colti, che mi chiedevano “E i Trastolons?” “Ero uno di loro” “Nooo… per noi sono un mito, ma non abbiamo vostro materiale, anche se abbiamo letto qualcosa”. Nulla di nuovo, per certi versi: noi abbiamo portato nella poesia friulana dei concetti già esistenti, forse anche dei concetti antropologicamente universali propri della cultura ‘bassa’ e non della letteratura ‘ufficiale’, anche se poi la letteratura italiana è tutta un prendere, un rielaborare… Dante si è inventato l’italiano, l’Ariosto se lo è re-inventato, i grandi scrittori italiani sono quelli che hanno inventato la lingua come Emilio Gadda, Aldo Palazzeschi, lo stesso Italo Calvino… o come Beppe Fenoglio, che nel Partigiano Johnny mescola l’italiano con l’inglese e col piemontese, e a un certo punto c’è addirittura una citazione friulana! É un libro strepitoso che reinventa una lingua, bisogna avere le palle per fare un lavoro così. Il Partigiano Johnny in friulano è Donald dal Tiliment, il libro scritto nel 2001 da Stiefin Morat, uno dei poeti trastolons, che mescola il friulano con l’inglese, con lo sloveno e con parole che non esistono, e ne è venuto fuori un testo molto elaborato ma perfettamente godibile, per chi sa leggere il friulano. Ho letto Il Partigiano Johnny due anni fa, e avendo letto prima Donald dal Tiliment, ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di Stiefin Morat in Fenoglio… che invece è morto tanti anni fa. La letteratura, e qualsiasi forma d’arte o di musica, è fatta tutta di invenzioni. É imprescindibile il mescolamento, l’invenzione, il rubare, il copiare.
Ti ricordi quella foto di te col Riz, pubblicata sul libro Tons Trastolons?
Sì che la ricordo! Questa foto di me con Fabian l’hanno pubblicata quando lui ha vinto il Premi Friûl… ma prima hanno messo solo me come “Fabian Riz”, poi hanno messo tutti e due sempre come “Fabian Riz”, insomma il Messaggero Veneto usciva un giorno sì e l’altro pure con questa foto, finchè non hanno capito che Fabian Riz era quell’altro: non quello col cappello, ma quello con gli occhiali a specchio. É stata una cosa ridicola, ma divertentissima.
Forse è successo perché sembrate due fratelli.
Con Fabian abbiamo suonato in Feste dell’Unità, in Bisiaccheria, in paesi incredibili come Turriaco, San Canzian D’Isonzo eccetera e con te abbiano anche suonato alla Casa del Popolo di Prato Carnico in quella disastrosa notte di Capodanno in cui mi bruciai un dito con un petardo!
Già, quella sera la nostra Big Scalembre Trans Band si è sciolta ancora prima di salire sul palco, uno dei nostri tanti record negativi! Anche se poi abbiamo improvvisato rock e blues per quasi quattro ore… ma lassù non hanno apprezzato molto la tua poesia, a quanto ricordo.
Ci hanno anche tagliato la corrente! Gli Arbe Garbe non volevano suonare di nuovo in quel posto perché non li avevano pagati, e così ci hanno mandato avanti noi. Siamo arrivati là e l’incazzatissimo gestore del locale (il povero Marcello, che dopo è anche morto) ci disse “Siete venuti qua per suonare o per ubriacarvi?” e il Fabian gli rispose “Ma noi siamo già ubriachi”, ah-ah! Per lui sarebbe stato meglio pagarci lo stipendio piuttosto che darci solo da bere, visto che gli abbiamo prosciugato tutto quello che aveva.
E quali sono, invece, i posti in cui preferisci esibirti?
Mi trovo come in famiglia in tutte le situazioni organizzate dal Cantiere di Mortegliano e Radio Onde Furlane… in realtà, a un certo punto mi ero anche stufato, ma alla fine è come andare a trovare i parenti. E così trovi quello che è ingrassato, quello che è dimagrito, quello che ha fatto un disco, quello che ha fatto un figlio o non lo ha fatto eccetera, e ti trovi in una serie di situazioni simpatiche in un ambito circoscritto, in cui però ci sono anche tanti giovani che si fanno avanti. Per esempio, mi ricordo il figlio della Lussia di Uanis, la poetessa dei Trastolons, che era ancora un neonato… poi passa qualche anno e Ulisse inizia a suonare la chitarra elettrica e pare che suoni anche bene, e ha messo su una sua band. Ci sono questi passaggi generazionali, che fa piacere vedere.
Allora c’è qualcosa, che si trasmette di generazione in generazione.
Sì, penso proprio di sì; io, da persona che ha passato tanti anni sulle corriere e sui treni, sento i giovani che parlano dei concerti che hanno visto, anche di persone che conosci, e questo mi fa piacere.
Hai partecipato alla notte del “Blues dai Cuei” organizzata da Radio Onde Furlane al circolo Arci Zoo. Che emozione ti ha dato?
É stata una bellissima serata, peraltro documentata in un doppio CD autoprodotto, e ci sono anche dei filmati… ho aperto assieme a Loris Vescovo, portando un po’ quello che è stato il nostro spettacolo teatrale Par furtune ch’a son i maz, e poi c’era Fabian con tutti i suoi musicisti, Pit Ryan coi suoi Mad Men Blues, e i Pantan in una nuova versione funky. Sicuramente una serata interessante, che potrebbe essere prodotta e distribuita da qualche piccola casa editrice. Spero che ci saranno altre occasioni per portare avanti iniziative simili.
Hai mai l’impressione di agire in un circuito ristretto o, usando una parola forte, in un ghetto culturale?
Ma non è un circuito tanto piccolo però, ci sono tante cose che si sono mosse, e tante cose che continuano a muoversi anche se forse un po’ di meno rispetto a cinque anni fa, però ci sono i corsi e ricorsi. Io preferisco stare all’interno di un’area non esageratamente grande, così da non avere problemi; nella vita ho un lavoro, una famiglia e ho altre cose, e voglio avere il tempo di leggere, di documentarmi, di studiare… voglio avere il tempo di impegnarmi sul lavoro di scrivere, che è anche un lavoro solitario.
Insomma, questa dimensione per te è soddisfacente.
Sì, per me sì, perché altrimenti fai quel salto in più con cui entri nello show-business, magari underground, magari indipendente o quello che vuoi, in cui però devi cominciare a farlo come lavoro e allora diventa la tua vita. A me onestamente va bene, se posso
separare una mia vita personale da quello che è la musica, la poesia eccetera, e sono contento così. Mi va bene andare ai festival di poesia, e recentemente ho fatto una bellissima performance con un gruppo di rock-blues a San Giorgio di Nogaro; è stata anche una cosa un po’ improvvisata, dove mi sono messo a recitare poesie e anche traduzioni di Bob Dylan con un gruppo di questi vecchi bluesmen di San Giorgio. Voglio dire questo, le occasioni possono essere tante e ho comunque tanti progetti.
L’ultimo tuo progetto ufficiale è stato Deliberimi Dal Ma assieme a Loris Vescovo?
Quello è un progetto ormai concluso. Adesso ho un progetto di poesia sugli autori americani tradotti in friulano, e un altro che ho presentato in parte a Majano in settembre che si chiama Fontana di sanc dal mio paîs, e riprende P.P.Pasolini, il Vangelo, Piazza Fontana e la politica italiana, sempre in friulano. C’era il progetto di un fumetto con Guido a cui avevamo lavorato parecchio e che purtroppo è rimasto lì… e c’era un progetto di poesie e pianoforte con Claudio Cojaniz, uno dei jazzisti più bravi del Friuli, che oltre a incidere dischi ha fatto anche progetti specifici, tipo il concerto per il 25 Aprile. In questo momento, la cosa più importante per me è lo studio sulla vocalità della poesia, sulla musicalità della voce e dei silenzi, e su questi studio i mantra e le varie cose indiane. Sarebbe bello potersene occupare a tempo pieno, ma ci vuole tempo anche per incontrare le persone.
Cojaniz ha suonato per noi diverse volte, mi pare che lo conosci bene.
Lo conosco da moltissimi anni, perché il primo anno che sono venuto in Friuli ha votato un mio testo in un concorso letterario a Latisana, in cui poi sono arrivato secondo. In seguito mi ha regalato dei dischi e ho cominciato a frequentare l’Osteria all’Aghe Clope dove lui suonava, ci si vedeva spesso, insomma… ha fatto poi un bellissimo disco di musica classica, suonato con l’organo in una chiesa, e ha anche fatto un concerto di blues al Teatro Comunale di Monfalcone uscito in CD, che avevo registrato su una cassetta che poi ho perso. Anche questo è un bellissimo disco, che riprende Thelonious Monk e altri autori jazz che virano sul blues.
Cojaniz ha veramente fatto una marea di cose, ho seguito i seminari jazz che ha tenuto all’Università di Udine, dov’era anche affiancato da gente notevole come Bearzatti e Maier. C’è un minimo di interesse per quello che si produce in questo misconosciuto angolo di mondo?
I jazzisti friulani sono stati i più importanti in Italia soprattutto negli anni Novanta, forse adesso sono stati surclassati dai vari Bollani ma comunque trovano sempre spazio, ad esempio nelle pagine speciali del Manifesto, un giornale che si è occupato anche di Arbe Garbe, Loris Vescovo e appunto Cojaniz. C’è stato un interesse per queste realtà, ma se vuoi essere conosciuto a livello nazionale come musicista devi farlo diventare il tuo lavoro. Personalmente, la vedrei come una limitazione, nel senso che non sono un bravo musicista… sono una persona che ha delle idee e magari mi occorre poi uno strumentista o un arrangiatore, però se devo fare un libro di poesie non ne ho bisogno.
Vale ancora la pena di cercare di produrre una cultura alternativa in Friuli, o è troppo tardi?
I giovani avranno sempre bisogno di una cultura alternativa, per cui bisogna fare delle cose aspettandosi che pian pianino poi qualcuno si muova. Ti faccio un esempio sulla poesia: l’anno scorso ho partecipato al “Porto dei Benandanti”, una manifestazione che fanno ogni anno a Portogruaro gestita da una associazione di poeti legata al sociale e alla psichiatria e che produce delle piccole edizioni, e oltre al nostro giro c’era gente di Trieste, Bologna e Milano, ma anche persone di altre nazioni… e dove Daniela Turchetto, una poetessa di Concordia Sagittaria che ha partecipato alle prime esperienze dei Trastolons e scrive in concordiese -un friulano particolare- mi ha presentato un poeta di diciotto anni che si autoproduce in casa dei libretti di poesie in concordiese. Diciotto anni! Un ragazzo palestrato e sportivo, uno “normale” insomma… questa è una insegnante che ha seminato e qualcuno le è andato dietro su quella che è una poesia
moderna e contemporanea ma scritta in un friulano arcaico, che non si parla quasi più. Non ti sembra vero, eppure i giovani ci sono, non solo per quello che riguarda la musica.
Radio Onde Furlane ha battezzato “Blues dei Colli” la scena musicale e culturale in cui ci troviamo. Ma esiste veramente, o è un mito?
Basta creare un mito che la cosa esiste, ci sarebbe già comunque! Prendiamo ad esempio Il Nemico, il bellissimo romanzo appena uscito scritto da Emanuele Tonon e pubblicato da ESBL (una nuova casa editrice di Milano molto raffinata che da alcuni anni va per la maggiore): il nostro scrittore pazzo cormonese si è fatto aiutare nel tradurre alcune frasi anche da Fabian Riz, ma soprattutto io ritrovo nel suo libro i temi di alcuni blues di Fabian o di alcune canzoni di Pit Ryan contro il lavoro, quindi ci sono elementi culturali che accomunano sia musicisti che hanno quarantacinque anni che giovani scrittori, e anche le nuove leve del punk. E anche questi giovani punk cormonesi, che diranno nelle loro canzoni?
Mi sentivo proprio ieri alcune tue tracce sul disco Tananai, il Blues Dai Pantanars e Zâl.
Sul Blues Dai Pantanars con me alle voce hanno suonato gli Arbe Garbe, anche se c’è scritto ‘Croz Sclizzâz’, ed è registrato da Stefano Amerio a Cavalicco, negli studi dell’Artesuono. É anche quello un blues, e parla degli abitanti della Bassa Friulana una volta chiamati spregevolmente Pantanars, ma parla fra le righe anche del Sud del mondo e delle mie esperienze in Sud America. C’è questa magica bambina gialla, questa ‘frute zale’ che poteva essere mia figlia anche se all’epoca non c’era ancora, e che è una delle figure ricorrenti. Zâl (giallo) ha a che fare con gli strani modi di muoversi della coscienza; è una cosa che ho scritto una notte che ero assolutamente fuori di me a Colonia Caroya, in Argentina, e quando mi sono svegliato la mattina neanche sapevo cosa avevo scritto. L’ho ribattuta al Pc ed è in realtà la reminiscenza della poesia di uno dei poeti maledetti, Tristan Corbière, un poeta bretone dell’Ottocento. Ho ricordato di aver letto una sua poesia in francese e ho riscritto un testo che aveva a che fare con la sua poesia, e l’ho letto dal vivo durante una trasmissione radiofonica a Colonia Caroya con questa ballata classica di Brahms, se non sbaglio… la cosa è venuta fuori molto bene, ed è stata utilizzata da qualcuno che ha fatto teatro. É poi finita sul Tananai perché piaceva a tutti. Poi sono andato a ricercarmi Corbière e me lo sono riletto, e me lo sono anche ritradotto dal francese al friulano. Un lavorone, fatto per puro piacere personale. Pensa a come funziona la mente, a come uno può ricordarsi nei vari ‘fumi argentini’ di una cosa letta a Ginevra dieci anni prima.
Qua davanti abbiamo un bel po’ di dischi, prova a dirmene qualcuno da sentire.
Ho molto amato questi autori sconosciuti registrati negli anni Sessanta da etnomusicologi come Lomax o anche meno famosi di lui, in giro per gli stati del sud degli USA, gente assolutamente sconosciuta. Ho queste pubblicazioni della casa editrice Albatros, adesso diventata la casa editrice Alabianca che pubblica anche i dischi di Jannacci, che contenevano dei libretti con i testi, le spiegazioni, le traduzioni eccetera, e da ragazzo imparavo a memoria e cercavo di imitare il suono e il canto di questi blues molto rudi. I due fratelli della mia ex morosa Martina Mirandolina con cui sono stato tanti anni, che rubavano dischi di blues selezionati come ZZ Top, S.R.Vaughan eccetera, mi hanno insegnato un sacco di cose. Chiaramente, amo i grandi del blues di Chicago, quel suono potente e greve… Robert Johnson è straordinario, potrebbe essere uno dei nostri. La prima volta che ho sentito tutte le registrazioni esistenti di Robert Johnson che sono circa una trentina, cazzo, lì mi sono reso conto di tutto quello di suo che nel corso degli anni è stato ripreso da tantissimi gruppi, e che a sua volta lui avrà preso da chissà chi perché la sua è una vita misteriosa. Sicuramente è stato il primo: sentirlo rifatto dai Rolling Stones o dai Cream è straordinario, ma forse è ancora più straordinario sentire prima le loro versioni e poi riascoltare gli stessi pezzi in queste registrazioni scalembre e trastolone fatte da Johnson in persona.
Affiorano sempre questi concetti di Scalembre e Trastolon… come si può tradurli?
Scalembre vuol dire ‘trasversale’, ed è una parola probabilmente di origine longobarda che si ritrova in molti dialetti del Nord Italia… vuol dire ‘obliquo’ e quindi ‘trasversale’, e forse anche un po’ ‘strampalato’ se vogliamo, nell’utilizzo che ne abbiamo fatto. Trastolon è quello che si muove seguendo non una linea retta ma un percorso un po’ più accidentato e forse più interessante, e molti lo confondono con Torzeon che invece è uno che va vagabondando. Così Trastolons è diventato il nome di un gruppo di poeti che ha portato avanti il discorso delle diversità, dell’invenzione più che dell’arte come luogo principe del fare cultura, una cultura diversa e meticciata… caraibica, insomma.
Cosa pensi che diranno fra cent’anni del Blues dei Colli? Se lo ricorderà ancora qualcuno?
Spero proprio di sì. Dipende anche da quello che faremo ancora, oltre che da quello che abbiamo già fatto. Certo che Fabian Riz, quello non se lo dimenticherà nessuno: per come la vedo io, resterà nella storia dell’umanità!