A Lusia

Rido nella terra bionda
di Ruda al tramonto
che abbiamo annusato rotonda
in volo
corne cornacchie ebbre di rovo.

Tu che sostieni il dolore dell’alba lontana
soffiami l’erba ardente, fatata,
ospira la luce che celi nel
fondo del sogno di fulmine e sasso…

Canto

Canto il tuo corpo di contadina addormentata
sulla spiaggia,
in faccia al sole fulminata
in faccia al Golfo di sirene …

Canto

Canto la tua danza di rana di rospo di farfalla notturna
disperata
inchiodata
d’uno spillo di luce
sui viso porco dell luna …

Canto

Canto le mani rosse, spaccate, che tremano matite
e colori che colorano la nebbia e la muraglia
e quel pianto, quel riso di macchina e mitraglia
la rivoluzione floreale del tuo balcone sovversivo
nazionalitario
dondolante

Foglia di bosso
vela lontana .


(RaffBB Lazz 15 Novembre 1995)

A Lusia

Rido nella terra bionda
di Ruda al tramonto
che abbiamo annusato rotonda
in volo
come cornacchie ebbre di rovo.

Tu che sostieni il dolore dell’alba lontana
soffiami l’erba ardente, fatata,
sospira la luce che celi nel
fondo del sogno di fulmine e sasso…

Canto

Canto il tuo corpo di contadina addormentata
sulla spiaggia,
in faccia al sole fulminata
in faccia al Golfo di sirene …

Canto

Canto la tua danza di rana di rospo di farfalla notturna
disperata
inchiodata
d’uno spillo di luce
sul viso porco della luna …

Canto

Canto le mani rosse, spaccate, che tremano matite
e colori che colorano la nebbia e la muraglia
e quel pianto, quel riso di macchina e mitraglia
la rivoluzione floreale del tuo balcone sovversivo
nazionalitario
dondolante

Foglia di bosso
vela lontana .


(Raff BB Lazz 15 Novembre 1995)

Miliart

CAPITOLO PRIMO: TRIESTE E LA COMUNITA’ RASTAFURLANA

Non avevo mai bevuto vino peggiore, neppure nelle malfamate bettole pirata del Salento greco .
L’oste, un brutto tricheco, girava fra i tavoli versando senza nulla chiedere un Terrano inacidito o un bianchetto sospettosamente frizzante ai bevitori semiassopiti .
L’aria era densa di fumo e del rumore prodotto da una macchinetta mangiasoldi insistentemente torturata da qualche avventore .

Ero appena giunto nella città di Trieste, detta anche Trst, molti giorni di navigazione dopo la mia partenza da Tirana,nell’Albania, dove avevo fatto scalo per un mese rivendendo antenne paraboliche e cavalli saraceni al mercato di quella città .
Desideroso di visitare le terre a nord dell’Adriatico di cui Energumenos, il mio pusher greco, mi aveva tanto parlato, mi ero imbarcato sulla “Hobsbawm” che trasportava un carico di caffè destinato alle fiere del Norico (di cui son noti i cappuccini con ciambella) .

Trieste mi parve subito una nobile e bella città .
Ma, e qui il lettore che stimo un saggio sturabottiglie come il sottoscritto, non potrà non capirmi, la gola mi si era fatta secca per l’aria di mare e dovetti tosto cercare una locanda nella quale dissetarmi e mangiare un boccone .
Fu così che su indicazione di un marinaio croato della “Hobsbawm” mi ritrovai a sedere nell’orrida taverna sorseggiando l’orribile vinazza che il tricheco mi aveva prontamente servito appena ebbi poggiato le chiappe sulla panchetta .

Mentre stavo già pensando di andarmene la mia attenzione fu attratta da una scena quele se ne vedono molte in luoghi simili . Un avventore evidentemente ebbro veniva messo alla porta dall’oste fra reciproche imprecazioni e nel disinteresse dei presenti .
Mi alzai ed uscii in strada, curioso di vedere il seguito della vicenda; lo strano individuo se ne stava in piedi, in precario equilibrio, dondolante e imprecante, farfugliando in una strana lingua .
Aveva una lunga barba e lunghi capelli raccolti in traccioline castane che fuoriuscivano da un berrettone di lana giallo e azzurro con una banda rossa . Sulla sua pancia prominente dondolavano amuleti di rame, di ferro e d’argento a forma di bottiglia, di fiasco, di damigiana, di bicchiere, di boccale, di borracce, di barili e barilotti, di anfore e caraffe, di grappoli d’uva, di pampini, d’edere, di finocchi, di agli, cipolle, salsicce, prosciutti, salamelle, teste di cinghiale . Al collo aveva stretta una torque carnica d’oro . Era a torso nudo e scalzo: indossava solo un paio di braghe azzurre nella cui tasca aveva infilato un telefono portatile .

“What astu di cjalami ?!” mi chiese alzando la voce .
“Cerco una bettola dove abbiano vino migliore di questo ma non conosco la citta …” dissi ritenendolo esperto in quel campo e desideroso di fare sua conoscenza .

Non rimasi deluso . Il ceffo si fece una risata, mi mise un braccio attorno alla spalla e mi condusse giù, oltre il Ghetto Giudeo dove si trovava il luogo di ritrovo della sua comunità, quella dei Rastafurlans triestini .
Mi spiegò che i Rastafurlans erano i discendenti degli antichi furlans emigrati in ogni parte del mondo . Circa cent’anni addietro arrivò un profeta Barbe Lele Bumbuie che predicò loro il verbo del Diu Baffone, il dio bacchico dei loro antenati, signore della birra e della salsiccia con la brovade . L’assunzione sacrale di questa bevanda e questo cibo li avrebbe messi in comunicazione con gli spiriti degli antenati e con la loro terra lontana, il Friuli, il luogo mitico dei padri e delle madri laddove un dì sarebbero tornati .
Praticavano riti estatici di gruppo, radunati attorno ai loro officianti, i Baebufs, che ebbri cantando, danzando e suonando un tamburello a forma di barilotto afroromanzo invocavano il Diu Baffone e il Sacro Maiale, detto il Porco di Jah divinità celtoegizia .

Il mio Virgilio, così si chiamava, parlava una strana lingua appartenente al sistema celtogiudaico e afrosassone con notevoli influssi slavi, arabi, latini, sabini, salentini, lisiartici, bisiaki, lombardi, etruschi, occitani, baschi, sardegnuli, inzirlici, etilici, utopici ed etiopici .
Avendo studiato glottologia all’Università di Taormina ero affascinato da quell’eloquio così ricco e bizzarro ..
Presto giungemmo in un anfiteatro dove si svolgeva una festa di quella comunità : Venni accolto calorosamente . Vi reano un centinaio di persone uomini donne e fanciulli che mangiavano e bevevano cantavano e danzavano . Sull’arco d’entrata a quel luogo capeggiava una scritta fatta con rami di vite intrecciati ; diceva “In Refosco we trust” .
Bevvi anche io, ottima birra bionda ed ottimo vino rosso e mangiai, e mi diedi alle danze come conveniva .
Restai in quella comunità alcuni giorni riprendendo il buon umore e il colorito che il lungo viaggio Adriatico aveva offuscato .

Era primavera avanzata quando lasciai Trieste .


CAPITOLO SECONDO : NEL BISIAKISTAN ORIENTALE

Partii da Trieste a bordo di una triremi carica di sigarette turche e cioccolata bosniaca alla volta di Marano .

Ma una improvvisa burrasca consigliò il comandante a puntare verso lo scalo più vicino: così fu che, sotto una pioggia battente ci trovammo ad attraccare a Portorosega nel Bisiakistan Orientale.

Quand’ebbe spiovuto mi congedai dall’equipaggio e mi aggregai ad una carovana di cammellieri duinesi che stava partendo per la lunga transumanza che ad ogni primavera li spinge a Nord, verso la Selva di Tarnova .
Passammo così la terra del Lisert, che si estende dalle foci mitraiche del Timavo alle prime falde del Carso, un territorio selvaggio e inospitale che gli stessi cammellieri duinati temono di traversare .
Chiamata così per la presenza di una popolazione di lucertole mutanti e di grandi draghi colorati dai più vivaci colori (che pare emettano dalle nari gas allucinogeni coi quali stordiscono le loro prede) la terra del Lisert è abitata anche da una tribù di temibili donne ramarro dalla pelle giallo-verde . Queste donne, forse per la loro dieta particolare composta da libellule, mosche, toporagni,
erbe amare, fiori di finocchio, cuccioli di cammelli, pecore ed altri animali domestici e financo di bambini, hanno una forza portentosa e assalgono i viandati per depredarli d’ogni cosa .
I cammellieri duinati pregavano nella loro lingua arabo-gèpida Myriam del Rilke, la loro dèa piangente, affinchè li proteggesse .

Superato che ebbimo il Lisert fummo tosto a Monfalcone, la turrita capitale del Bisiakistan Orientale .
Pur avendo a lungo viaggiato per il vasto mondo rimasi stupito dalla bellezza e dal fasto di quella benedetta città : i suoi empori, i suoi mercati all’aperto, i suoi bazar multicolori non hanno eguali in tutte le terre d’ Oriente .

I cammellieri duinesi si fermarono nel caravanserraglio alle porte di Panzano ed io proseguii a piedi attraverso le piazze eleganti e le vie affollate di quella città ;
Vi si sentiva parlare molte favelle poichè eran giunti a vendere e comprare da molte terre : contadini furlani, vinai bisiaki, venditori di stoffe dalla Macedonia e dalla Persia, spadari goti, vasari catumbrini, cordai circassi, orologiai pesarini, rivenditori di softwere ceceni, pastori carniolini, intagliatori d’avorio goriziani, pescivendoli greci, norcini sciiti, cacciatori kirghisi, bottieri rastafurlans da Trieste e da Capodistria… e poi, prostiture orobiche, biscazzieri veneti, grassatori longobardi, spacciatori di camomilla ed altre piante dell’Estremo Oriente, giocolieri, saltimbanchi, musici carinziani, cantori aquileiesi, mangiafuoco maori, danzatrici del ventre cormonesi .

Mi fermai a discorrere con una simpatica venditrice di sigari cubani, vestita con uno splendido abito rosso che tradiva la sua appartenenza alla setta dei comunardi, molto diffusa nel Bisiakistan Meridionale, al confine col Gradestan la patria bizantina del profeta psichedelico Jim Marin .

Le chiesi se conosceva una locanda dove passare la notte .
Ella mi consigliò di incamminarmi per alcuni chilometri a ponente fuori dalle mura di Monfalcone in direzione del Bisiakistan Settentrionale .
Così feci e camminai di buona lena per un paio d’ore, tanto più che era una bella giornata di Aprile e il vento spazzava un cielo azzurro sgombro di nubi ed il sole faceva balenare la fertile campagna tutt’intorno mentre, in lontananza, dai minareti dorati di Monfalcone giungeva il richiamo del muezzin ai fedeli bisiaki .

Giunto che fui nel villaggio di Vermeàn, ai confini fra il Bisiakistan Orientale e quello Settentrionale, trovai ristoro all’ombra di un pergolato dove una fanciulla indigena, vestita alla moda locale con un’ampia sottana nera ed una camicetta chiara vedo-non vedo mi versò una mezza pinta di vino rosato persiano – bisiako ben fresco, come piace a me.
Bevvi così e mangiai salato per rintuzzare la sete per alcune ore .
Poi, accompagnato da un vecchio pastore bisiako che mi aveva tenuto compagnia ci alzammo, era l’imbrunire, e andammo a bussare ad una delle tante fumerie d’oppio che allietano quel saggio paese .
Restai a Vermeàn una settimana o un mese, non ricordo : “Il figlio di Semele e di Zeus donò agli uomini il vino per l’oblio” cantò il poeta, e il vino persiano e l’oppio bisiako erano il viatico migliore per godere una primavera di sogno alle falde dei verdi colli del Bisiakistan e dimenticare le molte ferite del mio animo di viaggiatore .


CAPITOLO TERZO : PRIGIONIERO A GRADISCA

Mi dipartii dal villaggio Bisiako una calda giornata di Giugno .
Giunto che ebbi l’Isonzo lo passai all’altezza del ponte di Sagrado e fui a Gradisca, la città dai mille ristoranti e pizzerie .
Bivaccavano infatti, attorno a quel fazzoletto di terra fra il Carso ed il Friuli Orientale molti eserciti ed era compito dei borghesi locali rifocillarli e farli divertire durante il tempo libero fra una battaglia ed un’altra .
In quei giorni si combatteva una guerricciola di poco conto fra l’oste del Cavalier Sconto che rappresentava gli interessi di Venezia e quello del GranDuca Von Paulìn de Gurizza dallla bella cavalleria lipizzana .
Appena messo piede in città venni infatti arrestato da due vigili veneti e rinchiuso nella fortezza finchè il GranDuca Von Paulìn non sconfisse il cavalier Sconto . Liberato dai suoi soldati insieme ad altri avanzi di galera cercai subito una trattoria per gustare la famosa polenta con la cotica.
Ma appena giunto sulla soglia di un locale dalla cui porta fuoriscivano profumate usmis di carne suina e crauti venni invitato da due gendarmi lipizzani a seguirli.
Mi ritrovai nuovamente in galera a bere la risciacquatura dei piatti dell’esercito absburgico.
Per fortuna l’esercito del Granduca Von Paulìn venne presto impegnato in una nuova offensiva con gli eserciti del Cavalier Sconto alleatosi al Principe Marìn, Vescovo di Grado e venni nuovamente liberato dagli armigeri lagunari che mi raccomandarono di “regolarizzare la mia posizione di straniero” .
Cercai di raggiungere un osteria per mangiare almeno un uovo sodo ma era belgià scoppiata una nuova battaglia : Von Paulìn si era questa volta alleato con l’esercito del Marchese Mirko Markic
del Triglaf ed era penetrato in città di sorpresa. Fu un bagno di sangue ed io non potei far altro che correre in prigione per non finir sgozzato o ancor peggio e lì mi nascosi.
Passai un paio di giorni tristissimi in compagnia dei lestofanti che condividevano la mia triste sorte di prigioniero.
Fu il giorno dei Santi Pietro e Paolo che da Sud giunse l’oste del Re Dandolo Terzo, chi diceva Turco, chi Arabo, chi Greco, Affricano forse.
Era un esercito enorme, mai visto in quelle contrade dai tempi di Attila : centomila fanti di molte etnìe e almeno cinquantamila cavalieri con le loro armature candide avanzavano da Meridione spazzando tutto ciò che trovavano . Le loro insegne erano bianche con una grande Taranta d’Oro al centro.
Qualcuno disse che Re Dandolo Terzo non avrebbe toccato Gradisca ; stava marciando ad Est oltre il Friuli Orientale, la Slovenia, l’Ungaria, l’Ucraina, andava in Siberia a spodestare uno Sciamano Calciucco che si era rubato una sua partita di vino salentino.
Ma la fama delle guerre Gradiscane doveva essere giunta alle sue orecchie e lui, che non volle mai esser secondo a nessuno (da qui il suo appellativo, Terzo) puntò sulla città e sbaragliò gli eserciti del Cavalier Sconto, del Vescovo Marìn, del Granduca Von Paulìn e del Marchese Mirko Markic.
Rase al suolo la città e proseguì verso Nord.
Fu così che, nascosto in un carro viveri della retroguardia di Re Dandolo Terzo mi rifocillai di carne di cavallo, cime di rapa, verdure sott’olio e vin rosato.


CAPITOLO QUARTO : AMORE A GORIZIA

Viaggiavo su uno dei carri merci dell’esercito di Re dandolo Terzo, ebbro e satollo, sonnecchiando sdraiato su un sacco di juta pieno di “friseddhe” quando una mano mi afferrò per i capelli . Mi divincolai e balzai in piedi.
Era Costanza, una piccola vivandiera del Re che, brandendo un cucchiaio di legno mi stava insolentendo in una lingua a me incomprensibile.
Le feci cenno di tacere e con ampi gesti ed una mimica efficace, son diplomato all’Accademia Curtesiana di Linguaggio Mediterraneo a Napoli, le spiegai che ero clandestino ma senza cattive intenzioni.
La giovane si chetò anzi, pose mano ad una botticella di grappa gallipolina e me la porse.
Bevemmo alcuni sorsi cullati dal dondolio del carro.
Poi, complice l’acquavite o il mio fascinoso sguardo ceruleo, la mia barba castana ed il forte odore di sudore che emanavo la fanciulla mi cadde fra le braccia.
«Ti amo!» mi disse con un sospiro, o, almeno così mi parve di capire.

Eravamo sulla strada che costeggiava il castello di Gorizia . Costanza mi prese per mano e saltò giù dal carro .
Ruzzolammo fra le gambe dei cavalli e gli stivali dei guerrieri e ci riparammo fortunosamente in un fosso dove giacemmo esanimi dando fondo alla grappa.

Venne la notte, la bella notte del Friuli Orientale.
L’oste di Re Dandolo era oramai lontana, ad Est, e le luci della piccola Gorizia scintillavano poche centinaia di metri innanzi a noi.
C’incamminammo e raggiungemmo la porta di San Rocco.

Trovammo alloggio in una piccola pensione vicino al quartiere ebraico e là ci sistemammo.
Era l’amore!
Per mantenere questa improvvisata famiglia mi trovai subito lavoro presso una tipografia cyberpunk, alle dipendenze di Mastro Nado Torzeòn .
Il mio compito era quello di traduttore. Essendo Gorizia una città multiculturale vi si parlavano molte lingue ma per me, laureato in Psicologia delle Comunicazioni all’Università di Salerno, non era certo un problema .
Tedesco, sloveno, turco, francese, occitano, catalano, basco, castigliano, galiziano, ebraico, milanese, piemontese, emiliano, ladino, greco, albanese, ogni lingua era alla mia portata.
Unica eccezione il friulano che non riuscivo ancora a decifrare, mene che meno quella lieve parlata goriziana di cui non comprendevo un ette!

Come tutte le cose belle anche quell’amore finì : Costanza scappò con Fabian, un guitto di Corno di Rosazzo che qualcuno definiva il più grande bluesman del Friuli Orientale.
Ci restai male, anche se in fondo me l’aspettavo: alla lunga il linguaggio dei gesti l’aveva stancata e mi aveva preferito un giovane friulano (lingua che lei aveva appreso a meraviglia…).
Solo, senza aver imparato il friulano e con pochi progetti decisi di chiedere la liquidazione a Mastro Nado e di partire da quella benedetta città.


CAPITOLO QUINTO : I BENANDANTI DI CIVIDALE

Dopo alcuni giorni di lungo vagare giunsi a Cividale.
Era d’estate e la campagna splendeva alla luce balenante del sole.
Le scarpe erano oramai sfondate, i miei vestiti rovinati; camminavo senza bagaglio e in tasca non avevo che qualche spicciolo.
Avevo appena sorpassato il bellissimo ponte sul fiume Natisone quando da un vicolo alla mia destra apparve nell’ombra, una figura minuta , avvolta in un mantello cencioso che mi fece con una mano segno di seguirla.
Le sorrisi e mi avvicinai a lei .
La guardai meglio.
Era una donna vecchissima che camminava zoppicando borbottando qualcosa in una lingua incomprensibile.
Venti metri più avanti si fermò davanti ad una porticina dipinta di verde.
La porta era socchiusa. Entrammo.
Una lunga scala, rischiarata fiocamente da alcune torce accese, scendeva ripida, quasi volesse portarci al centro della terra (ammesso che sia tonda!).
Scendemmo lentamente.
Alla fine delle scale di pietra ci trovammo in una stanzetta scavata nella roccia che dava su altre stanze più ampie.
Le superammo attenti a non mettere un piede in fallo e ci ritrovammo alfine in una grande aula di pietra chiarissima nella quale, seduti attorno ad un grande tavolo di legno rotondo stavano sedute una ventina di persone, uomini e donne di diversa età, apparentemente addormentate.
«Stanno lavorando – disse la vecchia – sono benandanti in estasi. Fra poco, finito il loro turno, potrà parlare con loro».
Mi sedetti su una seggiola e la vecchia mi offrì da bere dell’ottimo rosatello “Omar Kayyam” produzione locale di cui mi recò una brenta.
Quando i benandanti si ridestarono dall’estasi io ero bielzà ubriaco.
Li salutai cordialmente e spiegai che il vino mi aveva un po’ suonato perchè ero a stomaco vuoto e assai debilitato per il lungo viaggiare a piedi nudi per i colli del Friuli Orientale dove qualche contadinaz bastard mi aveva anche sparato poichè sorpreso ad espropriare un paio di galline.
Il più anziano e autorevole di loro, il gabelliere Totentanz, dal forte accento tedesco, mi rassicurò dicendomi che avrei cenato con loro.
Poi Gualtiero, il loro tamburino mi spiegò che i benandanti del Friuli Orientale, del Cividalese e della Benecia, stufi delle persecuzioni ecclesiastiche e folkloriche avevano deciso di unirsi in una società a responsabilità illimitata La BSSE ®© s.r.il. (cioè Benendanti Servizio Sciamanico Estatico). Essendo tutti loro praticamente analfabeti e illetterati cercavano una persona colta e laureata in grado di occuparsi delle loro pratiche e delle pubbliche relazioni.
Avevano scelto me, spiandomi fin da quando a Gorizia lavoravo come traduttore per Mastro Nado Torzeòn.
Accettai l’incarico e mi fermai a Cividale ospite di una benandante della compagnia, o meglio della BSSE ©® s.r.il., tale Doretta Draghetta che, ovviamente, di mè s’innamorò.
Ma questa è un’altra storia.


CAPITOLO SESTO: OSPITE DELLA BADESSA DI MOGGIO

Gli affari coi benandanti di Cividale non erano andati troppo bene: Gualtiero aveva cercato di scappare con la cassa ma, essendo in estasi era caduto per il troppo peso delle monete d’oro nel Natisone dove era annegato.
Io, che sospettavo ma nulla sapevo, venni accusato di essere suo complice e di aver circuito Doretta Draghetta per prendermi il loro pacchetto azionario e le loro camicie (che avevo fatto anche assicurare !). Doretta, la biondina celtica era invece follemente innamorata di me a causa della mia arguzie, della mia vasta cultura – furlana e planetaria – e del mio spirito poetico (due lauree all’Università di Pisa si fanno sentire!).
Dovetti così partire da quella bella città in tutta fretta per non pigliarmi le mazzate.
Ma i benandanti assoldarono un detective, un vecchio pugile californiano in pensione (dacchè in California anche i surfisti e i venditori di cocaina vanno in pensione) tale Bud e me lo misero alle calcagna.
Rubai una motocicletta ad una stazione della Shell e mi spinsi, per strade secondarie su per la Valle del Natisone.
Mi nascosi in un fienile a Pulfero dove, travestito da vecchia con una gerla piena di gubane contavo di resistere qualche settimana.
Non avrei potuto fare scelta peggiore: proprio lì amavano dar battaglia benandanti e stregoni e si era di Settembre, alla Tempora d’Autunno.
Rischiai le mazzate ma tirando al massimo la moto e liberandomi delle gubane una ad una chilometro per chilometro raggiunsi Caporetto dove mi fermai a tirare il fiato.
Mi ero appena seduto al tavolo dell’Osteria “Da Milo” dove stavo per bermi una birrona (birra-bire-pivo-bier-fine-vonde-konez) quando la porta si spalancò: Bud.
Schivai un pugno, lo colpii in pieno viso con un boccale da un litro di cotto col coperchio di peltro e saltai da una finestra.
Tirando la moto al massimo giunsi a Plezzo, alle falde del monte Canin senza più benzina.
Un freaklimber del luogo acconsentì in cambio della moto a portarmi in spalle sull’altro versante fino alla Val Resia .
Giunto al paese di Stolvizza rubai una bicicletta da corsa e scesi la valle inseguito da un ciclista di Amburgo. Sopra la mia testa si sentiva ronzare qualcosa.
Bud aveva affittato un elicottero.
Fu così che a Resiutta entrai con la bici in un letamaio e ne uscii solo dopo un paio d’ore travestito da fungo allucinogeno.
Era notte. Strisciai fino al ciclista d’Amburgo, che portava un bel paio di baffi a manubrio, e lo rubai. Ben presto la bicicletta ci inseguiva scampanellando.
A Moggio lasciai quel veicolo bizzarro e camminando rasente ai muri, agli alberi ed ai menhir raggiunsi l’abbazia.
Suonai al portone.
«Chi è ?» gridò la potente voce d’una monaca .
«Sono un povero viandante sorpreso dalla tempesta!»
«Quale tempesta!? Se non piove da un mese!»
Fui circondato da monache armate che mi condussero davanti alla bellissima e crudele badessa che mi fece bastonare dai suoi servi e poi mi rinchiuse in cella.
Dovevo pregare inginocchiato sul sale, potevo bere solo acqua naturalmente frizzante e bestemmiare di nascosto, ma fu la mia salvezza.
I benandanti temevano la badessa di Moggio più di Ignazio di Loyola.
E così salvai la pelle.


CAPITOLO SETTIMO IL SAPIENTE DI ZENODIS

Restai prigioniero nella Abbazia di Moggio per sei mesi.
La badessa, bellissima e crudele, ebbe pietà di me.
Fui così liberato e potei lavarmi, cambiarmi d’abito, radermi, cantare ad alta voce i brani più belli del repertorio di Fabiàn Riz e così via.
La badessa mi invitò a cena nella sua sala da pranzo personale e potei così sfoggiare la mia cultura teologica, logica, illogica, filosofica, psicologica, mesmerica, telepatica, telematica, televisiva, radiofonica e quant’altro.
Quando elencai modulando la voce su un basso continuo tutti i fioretti di San Francesco, le visioni di Santa Sabata e i giocatori della Pro Dordolla, la badessa esclamò « Lei è un grand’uomo!» cosa non vera, fra l’altro, perchè dopo sei mesi di digiuno avevo raggiunto i cinquanta chili.
Ciò non pregiudicò le intense ore di passione erotica che seguirono quella cena, nè la mia fuga con un salto dalla torre dell’abbazia travestito da monaca in estasi.
Affittato un asinello con i candelabri d’oro rubati nella cripta proseguii il mio viaggio verso Tolmezzo, il Canale del Bût e su su verso Paluzza e il mondo.
Un pomeriggio, era quasi Aprile, mentre procedevo per i boschi verso Ligosullo con l’idea di raggiungere la Carinzia e il Danubio per poter scendere fino al mar Nero dove andare a fare il gelataio, mi si parò innanzi uno strano omino.
Aveva il capo rasato, la lunga barba chiara e una veste semplice di un colore vicino al bianco o al nero.
Avanzava fra gli abeti reggendo un cestello di funghi.
«Chi siete, amico?» gli chiesi.
«Sono Mad Mât Spudât Sfolmenât Scalembri che, tradotto in sanscrito antico vuol dire Yasmarapuurna Baba Il Saggio e conosco la virtù »
Lo seguii volentieri, amando io la saggezza sopra ogni altra cosa, a parte forse le salsicce.
Scoprii così che, sopra il paesino di Zenòdis, orgoglio della Carnia, abitava una piccola comunità di asceti e ascete che si erano radunati a vivere in povertà e letizia. Portavano tutti il capo rasato e lunghe barbe, anche le donne e i bambini, allevavano qualche capra e qualche mucca, coltivavano molti ortaggi, piccoli frutti, canapa indiana, papaveri, vite americana e trascorrevano le giornate in letizia amandosi e rispettandosi .
In quella piccola comunità non vi erano capi nè leggi, ma tutto si svolgeva secondo il buon senso e l’equilibrio che regna fra le persone sagge e illuminate che rispettano se stessi, gli altri, la natura, il cosmo e la segnaletica stradale.
La comunità portava il nome di BadalucTruc Truc che tradotto in sanscrito antico significa Pranandal’andayya.
Passai una bella serata con loro. Bevemmo acqua di fonte, mangiammo torte al ribes suonammo e cantammo le canzoni del loro musicista preferito YaYa Adananda Bagawadanda che in sanscrito antico significa Lino Straulin.
Certo, l’amore era universale ma devo ammettere che, pur essendo di larghe vedute, non giaccui volontieri quella notte con Catine Bagwanda, puemo dagli occhi profondi come l’abisso di Noto ma dalla barba folta come quella di Noè.
Restai una settimana nella comunità di BadalucTrucTruc e fu come scivolare dalle alture della Carnia himalayana verso l’Oceano della Coscienza Cosmica sul Grande Surf dell’amore cosmico senza neppure il salvagente.
Quando ripartii, gli lasciai tutto ciò che avevo, il mio somarello, i pochi spiccioli, un paio d’occhiali da sole, due candelabri rubati nell’Abbazia di Moggio, il walkman, i miei vestiti .
Scendevo per i boschi nudo, con uno spino in bocca, la barba lunga sporca di saliva e marmellata di mirtillo.
Le donne che dordolavano nei campi fuggivano terrorizzate «Il salvàn! Il salvàn!».
Vagai per i boschi per giorni, forse settimane, provando un senso d’intenso piacere psicofisico.
Quando fui sotto Gjviano cominciai a chiedermi «Dov’è la mia ragazza, perchè incontro non mi vien?»
La risposta mi fu data da due vecchi e cari poliziotti che m’ arrestarono e, dopo avermi esposto per due giorni sulla piazza del paese mi tradussero fino al carcere di Rigolato dove mi ridussero in una cella di massimo isolamento.


CAPITOLO OTTAVO I PUGILI DELLA VAL TRAMONTINA

Pane ed acqua.
Nel carcere di Rigolato mi sembrava di essere ritornato nella cella dell’Abbazia di Moggio, anche se qui non dovevo pregare inginocchiato sul sale.
Quando venne un ufficiale a interrogarmi lo trovai incredibilmente cordiale.
«Su su, caro mio, voi turisti tedeschi avete strani modi di divertirvi. Comunque non si preoccupi, le farò fare un bagno caldo e le darò un vestito pulito per tornarsene in albergo. Ma non beva troppo!»
Io ero troppo stupito per parlare. Mi lavai, mi vestii, firmai un paio di scartoffie come Hans Ruedi Guggenbull, salutai in alemanno e uscii dal severo palazzotto.
Ma appena fui in strada capii: di fronte a me, sorridente come solo un pugile californiano in pensione sa sorridere, mi aspettava fumando una Lukie Strike il vecchio Bud, il detective che i benandanti di Cividale avevano assoldato per farmi fuori.
Aveva sicuramente parlato lui all’ufficiale di polizia, forse l’aveva corrotto, ed ora era li, aspettava il momento opportuno per sistemarmi.
Cosa dovevo fare?
Gli andai incontro.
«Sono qui – dissi – fai il tuo sporco lavoro.»
Bud rise: «Mi sono licenziato, tranquillo, i benandanti di Cividale sono tranquilli, nessuno vuol più farti fuori.»
«Ma, allora, come mai sei qui, a Rigolato?»
«Ti ho visto in ceppi nella piazza del paese ed ho pensato che uno come te, un gran furbo, un gran dottore, un ubriacone del tuo calibro non poteva marcire nel carcere di Rigolato!»
Lo ringraziai.
Mi invitò con lui, sulla sua cabriolet rossa fiammante. Andava ad un raduno di ex pugili in Val Tramontina e insistette molto perchè lo seguissi.
Su e giù per le strade sconnesse di quelle belle montagne me ne stavo beato, fumando un sigaro sul sedile in pelle di ghepardo della sua macchina.
L’autoradio trasmetteva l’ultimo successo funky-blues di Ikosho Carrara detto il Samurai e la nostra bottiglia di tequila cadorina era appena a metà.
La metà piena.
Fummo su, alla Malga Ciampis verso le due di pomeriggio.
La festa dei pugili fu entusiasmante.
Si bevve, si cantò, si danzò e, alla fine ci fu una grande scazzottata.
Qualche ne schivai qualche ne presi.
E, ad un tic da la gnôt fu vonde.
La mattina seguente mi alzai un po’ indolenzito.
Un amico di Bud, guardia personale del sultano di Varmo mi invitò a seguitare il viaggio con lui.
Montammo sul suo elefante e partimmo seguendo la strada carovaniera che scendendo fino a Meduno, prosegue per Spilimbergo e Codroipo.
Dopo alcuni giorni di marcia (l’elefante va pian pianino) fummo in vista della città fortificata di Varmo, dove avrei finalmente potuto riposare come si deve.
Entrammo nel palazzo del sultano e due eunuchi riccamente vestiti mi condussero, assonnato e indolenzito ad un comodo giaciglio dove tosto m’addormentai.


CAPITOLO NONO NEL SULTANATO DI VARMO

Mi svegliai lentamente.
Il sole indorava gli splendidi mosaici dorati e gli arazzi di quella sala dove, abbattuto dal lungo viaggio, avevo dormito per forse venti ore filate.
Mi guardai intorno.
Donne.
Tante donne.
Solo donne.
Hera un erem!
Cioè: era un harem!
Mi levai a sedere.
Dagli altri giacigli riccamente coperti di sete e di ricchi tessuti e addobbi, dai bordi della piccola piscina ornata d’oro molti occhi mi guardavano.
«Bundì! Buongiorno!» esclamai.
«Bundì! Buongiorno, signore!» risposero cento voci.
Prendemmo un caffè insieme, alla turca ovviamente, preparato in una cuccuma da cento
Chiesi ad una di loro, una giovanetta bruna che sedeva al mio fianco, come si trovassero colà e se fossero contente della loro condizione.
«I turchi sono passati di qua ma, purtroppo se ne sono andati e ci han lasciato nelle mani di quelli di sempre, i furlàns…» mi disse la giovane, chiamata Amina.
Stupito da questa affermazione le chiesi il perchè di tanto risentimento.
«I furlàns di queste campagne – disse – non tengono da conto le loro donne come fanno i turchi, i finlandesi e i marcomanni. Se a vent’anni non siamo maritate ci bollano con l’infamante epiteto di vedranis, parola d’oscura origine aria, e se sole non veniamo circondate dall’affetto e dalla solidarietà della comunità, ma dal disprezzo. Una donna sola, diversa, autonoma riceve odio, scherno, derisione e, se le va bene, se è bella e possiede capacità magiche, viene arsa viva. Noi che viviamo nell’harem del sultano siamo delle privilegiate. O sono privilegiate le streghe, lis vedranis che bruciano sui roghi del pievano?
I turchi almeno bruciavano tutto, partendo dal pievano, non ci disprezzavano, facevano solamente la razzia che fa il branco.
I furlàns di queste campagne temono chi è diverso e disprezzano chi ha bisogno d’aiuto. Ma non è forse con la mano destra, come dice il poeta scita Al Ehandro Ibn Jussuf, che si tende la mano a chi abbisogna d’ aiuto?»
Lasciai quel palazzo colmo di tristezza. Amina e le altre ragazze del harem del sultano di Varmo mi facevano pensare che al mondo l’uomo incosciente e imbarbarito vive nella legge dell’uniformità e nella certezza dell’odio.
E me n’andai, stremìto, oltre l’acqua del Tagliamento, altrove.
E me ne andai in bicicletta verso Sud, per strade morte e campi vivi.
Lungo una terra strana e lenta che non sentivo mia.


CAPITOLO DECIMO: PUART, SCRIVERE CON LA PANCIA

Scena Prima: Puart. Lungo il Lemene. Esterno giorno.
Seduti sulla riva del fiume tre persone chiacchierano amichevolmente.
Il protagonista si avvicina a loro e li saluta. I tre lo invitano a sedersi insieme a loro.

LELE : Grazie, signori, salute a voi,
mi chiamo Lele e giungo qui dopo lungo vagare.
G.CAMILLO: Ah! Lungo vagare! Io sono
Giulio Camillo e stavo finalmente discorrendo
con questi due amici venuti dal Nord, Erasmo che
è gran pensatore e François ch’è medico e scrittor.
LELE: Oh, bene, giusto giusto m’è piovuta in capo
un’idea, di scriver le mie avventure di viaggio in un libro, ma
non so che forma dargli pur avendo scritto in gioventù conte e poesie
ed anche saggi ed appunti ed enciclopedie…
FRANÇOIS : Scrivere per scrivere non val la pena. Bello è
muovere la mente con il riso e rivoltare il mondo per farlo sempre
dondolare. Bello è parlare allo spirito con il corpo e ai savi con la
follia. Della memoria far tesoro, non perderla mai neppure dopo due
brente di barolo. Ma, per inventare il mondo nuovo, perchè questo non
ci piace, beh, bisogna raccontarlo.
G.CAMILLO: Non dimenticarsi mai, mettersi sul palcoscenico e
rappresentarsi….
ERASMO: si, ma non come in un volume di medici, non come fra i
dottori che elencano virtù ed enumerano il mondo.
FRANÇOIS: o fra i poeti che lo cantano tanto per passare il tempo o
per “buona educazione”!
LELE: Ma, raccontare per muovere il pensiero con il riso e lo spirito
con il corpo non sarà mica satira da due lire, la sporca, vuota comicità
velata d’ironia dei sofisti e dei servi, la risata scenica che tanti giullari
ammaniscono ai padroni per un pezzo di pane!?
FRANÇOIS: che dici!? I grattalardo lasciali altrove! Scrivere per
muovere la pancia vuol dire crearlo questo mondo tondo, caro mio!
Crearlo nuovo. E se rido è perchè ne ho memoria e rispetto, perchè ne
ho fatto esperienza e conoscenza.
Ma esperienza viva, ciulad’asin!, di carne e di sangue. E passa qui
il vino Erasmo, cacasangue maledetto!

Due fanciulle assai graziose entrano in scena. Sono vestite di bianco e portano
due ceste con pane, salami e bottiglie di vino.
Poggiano i cesti, si siedono accanto agli altri.

G.CAMILLO: Lele, ti presento Bettina e Veronica, due amiche di
Puart.

Tutti prendono cibo e bevande dal cestello.

FRANÇOIS: Ah, il vostro vino! Il vuestri vin! Ce bon!
ERASMO: Astu sintût di chél di Bulogne c’al fâs un film su la
piardite da la memorie…. Ohi, Camillo!
G.CAMILLO: Cui? Bevi, bevi e stâ un pouc cuiêt!

La macchina inquadra le verdi sponde del fiume e sfuma l’immagine.
Veronica e Bettina
Francesco Camillo e Lele
seduti lungo il fiume
col vino di cantina e con
piruç miluç, le mele e con
spinèi di gangia ch’Erasmo
rolla con acùme.
Parlare lenti, star silenti
e poetar del mal di denti.
Babele Contenta contentòna?
O solo coscienza d’una vita buona?

E questa è la fine del racconto dei miei viaggi avventurosi nella terra strana e bella del Friuli misterioso.


S O M M A R I O

Capitolo Primo Trieste e la comunità rastafurlana
Capitolo Secondo Nel Bisiakistan Orientale
Capitolo Terzo Prigioniero a Gradisca
Capitolo Quarto Amore a Gorizia
Capitolo Quinto I benandanti di Cividale
Capitolo Sesto Ospite della badessa di Moggio
Capitolo Settimo Il sapiente di Zenòdis
Capitolo Ottavo I pugili della Val Tramontina
Capitolo Nono Nel sultanato di Varmo
Capitolo Decimo Puart: Scrivere con la gola.
Cartine
Sommario


Raffaele BB Lazzara
1 Ottobre 1995
Pantianes Edizioni 1995

Il Romanzo

Erano anni che mia madre, donna colta, beneducata e pia, si lamentava.
Da anni, non da mesi.
Mia madre da anni si lamentava, come son use far loro, le brave madri d’una volta.
Le madri che si rispettino.
Si lamentava.
Scrivi un romanzo, mi diceva.
Mi diceva: con tutto il tempo che hai.
Che sei disoccupato, senza una lira, senza una fidanzata da portare a spasso eccetera.
Che magari se ti va bene fai i soldi.
Allora scrivi un romanzo.
Che cosa ti costa, dicoìo, checosaticosta.
.allo sperimentale Ubù, lJbù il re di fanciulli, il re dei pescatori, fallo giallo, nero -un noir!-, sincero, poetico, patetico, fallo storico, erotico -non porno :erotico-, per
ragazzi, ma fallo, provaci almeno!
Scrivilo in qualche lingua strampa di quelle che piacciono a te, tipo il catalano, l’occitano, il friulano, il sardo, il cecèno.
Ed io che le spiego che non lo so scrivere un romanzo, io ho scritto solo poesie, canzoni per gli amici, qualche lettera d’amore – per gli amici-, che io ho scritto solo le relazioni per il responsabile, quando avevo un lavoro e poi non ho voglia, i romanzi sono lunghi ma lo sai, mamma, quanti anni c’ha passato il Manzoni su “I promessi sposi” o Proust …
E Collodi per scrivere “Pinocchio” dice sempre lei
Tre anni, dal 1881 al 1883. Ma poi Collodi, il Lorenzini, era un ubriacone, un donnaiolo pieno di rimpianti e di rancori… un fallito… uno baciato dalla furia…
Mia madre a questo punto mi guarda sempre con una strana occhiata ed io so, o almeno penso dì sapere, che pensa e non dice.
E poi, con la vita e la testa strampa che ti trovi dopo trent’anni vissuto da balordo, fallo autobiografico ‘sto romanzo che se ti vabene fai i soldi e sevamale almeno hai fatto qualcosa e la smetti di vagabondare per un lavoro che non si trova, a lamentarti, a bere tutto il vino e il wiskey che tuo padre poi resta senza!
Con quella testa strampa… Ho fa testa strampa, ç’est vrai.

Ma la mia vita non è stata più interessante di molte altre, per esempio di quella del mio dentista che prima faceva, non il maniscalco come si sarebbe portati a pensare, bensì il lettore di tarocchi sulla pubblica piazza.
Sono nato trent’anni fa e non ho sprecato la mia infanzia: ero un bel bambino, coraggioso, bravo a scuola, di buone letture e spiccata personalità, piacevo alle bambine, alle maestre e anche ai ragazzi del cortile con cui giocavo e facevo a botte. Mi piacevano il mare e la montagna, amavo il Carso e le campagne della Bassa friulana dove andavo a zonzo con il nonno, mi piacevano Salgari, Rodari, Tolkien e, verso gli undici anni, Nietzsche, Sartre e Playboy.
Ho avuto una infanzia felice dove anche Gesù Cristo era un fricchettone Superstar simpatico e un po’ svagato, come Pippo, e un’importante autorità della nazione in cui vivevo era impersonata da uno soprannominato Belzebù o Nosfertu.
Un mondo di fiaba, forse un po’ horror.
A dodici anni, avendo visto centinaia di volte la marea di tute blu che daLLe fabbriche di Sesto San Giovanni calavano ad azzurrare il centro di Milano con le loro Bandiere rosse, i loro fischietti e i loro tamburi, ero rassicurato anche verso
la soluzione d’ogni ingiustizia umana: ci avrebbero pensato loro, gli operai di Sesto.
La storia doveva fare il suo corso come spiegavano Hegel, gli Intillimmani, l’Agnese che andava a morire ed altri numi tutelari fra cui gli amici del cortile che avevano qualche anno più di me e che ogni settimana andavano a scontrarsi con i fascisti, la polizia e altre autorità nemiche della felicità umana.
Avevo undici anni e mi sentivo in una botte di ferro: gli operai di Sesto vegliavano sul futuro dell’umanità e un fricchettone superstar con Pietro Maddalena e compagnia cantante, Giuda incluso anche se di pelle scura, mi garantivano un paradiso ritmico e musicale.
Tutto crollò il giorno prima della Cresima quando scoprii d’avere la varicella, ci fu il terremoto in Friuli e contemporaneamente mi resi conto che Hegel aveva toppato.
Tutto precipitò, dovetti mettere gli occhiali, mi colmai d’ansie, di brufoli, di domande, di incertezze.
Non piacevo più alle bambine.
Loro erano diventate donne ed io un verme.
Non mi piaceva più Rodari, nè Salgari, nè Nietzsche ma solo Playboy.
Vissi un paio d’anni ascoltando cantautori guardando i grattacieli dalla finestra. Poi, finita la scuola dell’obbligo potevo anch’io andare tutte le settimane a scontrarmi con i fascisti, la polizia ed i servizi d’ordine ai concerti.
Ero un moccioso, ma partii subito in quarta e ne presi un sacco ed una sporta da destra da sinistra dall’alto dal basso da autorità costituite e costituenti, dalla volante rossa, da mio padre, da mio fratello, persino da mia nonna che ci vedeva poco e da un occhio solo.
Cercai di rifugiarmi nella letteratura ma l’incontro con Joyce, procuratomi malignamente da un falso amico, mi fu fatale.
Dieci anni per riprendermi.
Dieci anni.
Diedi anni e sono qui, gli anni novanta, i tempi del Mondiale di Calcio perso dall’Italia (quello vinto ero a Parigi a caccia di Ulisse e nessuno mi disse nulla).
Anni novanta, fine secolo, fine millennio, fine delle certezze, delle illusioni, delle utopie, dei sogni.
In giro per il mondo cercando di lavorare almeno precario, di laurearmi (110/110), di suonare la chitarra alle feste campestri
Capelli lunghi non porto più.
Ho messo su venti chili di troppo.
Ho amato una donna sola, che volevo portare a vivere con me in una casetta fra i campi.
Precari, disillusi ma innamorati.
Era una danzatrice del ventre bergamasca che ancora oggi se mi pensa le scappa da ridere.
Una delusione terribile.
Ma era amore, giuro, in trent’anni mi sono innamorato solo di una danzatrice dei ventre bergamasca. Giuro. Cos’è l’amore se non follia.

L’unica cosa buona che ho fatto è stato non scrivere quel romanzo che mia madre dice sempre dovrei perchè non si sa mai magari in catalano occitano o in una di quelle lingue strampe che piacciono a te che sei strampo con la tua testa strampa.
Parcè che no ‘l sarès unevore interesànt chist romanç furlàn, ce sàiso, “Int di Tisane”.
Almancul, jo ‘o no cròt


Raffaele BB Lazzara
27 Settembre 1995

Lettera

Monfalcòn, 20 Settembre 1995

Carissimi,
vi scrivo da questa pioggia e questo vento.
Per prima cosa vi dirò che mi mancate. Io non mi manco ancora, non ho ancora preso le distanze da me stesso.
Non ho novità particolari su lavori o denari. Spero che venga presto fuori qualcosa di concreto e non “prospettive”. Non mi interessano le “prospettive” come non mi interessano le ideologie e le religioni, voglio realtà.
Io comunque faccio quel che devo fare anche se sono un po’ amareggiato e non ho più l’ottimismo di qualche mese fa.
L’unica cosa certa è che sono ancora vivo e faccio la mia strada poetica.
La poesia non è un testo scritto ma una via che si percorre.
La via dello spirito della terra, la realtà psicochimica prismatica e sensibile della creazione.
Il linguaggio non è uno strumento per la comunicazione di idee, ma uno strumento per portare all’esistenza il mondo stesso. Clami a la vite il mont scrivinlu.
Ma non c’è neanche bisogno di scriverlo. Basta viverlo in modo consapevole.
Infatti il linguaggio poetico e poietico non si limita a consentirci, come dice un antropologo che amo, di esperire o a riflettere, a narrare la realtà: la produce.
Da questa ottica, poetica, sciamanica (benandante) il mondo appare come un pronunciamento, un racconto.
Per il poeta-sciamano-benandante il cosmo è un racconto che diventa vero nel raccontarlo e nel fatto di raccontare se stesso.
Alla base di questa via vi sono la reverenza di fronte ai poteri del linguaggio e la capacità di trasformarsi, immergersi, farsi trasformare da esso.
Questa via implica un viaggio che comporta un’impresa linguistica di grande coraggio e di grandissima incertezza, malattia, dolore per il raggiungimento di una consapevolezza più luminosa.
L’estasi poetico-sciamanica è arrendersi che autentica l’io e lo dissolve, invera la realtà di un mistero, quello dell’essere che comincia ad assomigliare ad una stanza buia che pian piano viene illuminata con un cerino.
Credo che fin da bambino avvertivo l’inquietudine di questa ricerca. Poi, quattro anni fa, nel Novembre del 1991 ho avuto la prima percezione di questa via ed ho cominciato a seguirla.
Da allora la mia diversità e il disadattamento che provavo per la società in cui viviamo e per la mia esistenza insignificante non mi sono sembrate più limiti e l’odio ideologico, il vittimismo psichico ha lasciato il posto ad una corrente calda di consapevolezze “altre”.
Ho cominciato a godere, a vivere come il surfista sull’onda del Paradosso.
La mia diversità, il mio disadattamento e la mia insofferenza sono energie superiori di vita.
Ed hanno un linguaggio che, appunto, non è una lingua, ma un viaggio cosmico alle sorgenti della realtà.
A volte provo una vertigine, penso che l’alterazione della mia coscienza mi porti ad una indifferenza verso tutto, non ho paura di nulla, morte inclusa. Altre volte sento inadeguato il mio “modo” di camminare alla via che percorro.
Forse perchè sono solo o non so ancora ben percepire gli spiriti dei vivi e dei morti, delle piante, delle pietre e degli animali che mi volano intorno, dentro e oltre.
Ho passato tre mesi quasi felice. Adesso sono sempre triste. Ma so che passerà perchè
no ‘è jè mai stade ploie c’al bun timp no ‘l sie tornât.
Un abbraccio, ci vediamo all’inaugurazione della casa.
vostro

 

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: