UNA LETTURA DE “LA RAGAZZA CARLA” DI ELIO PAGLIARANI
cenni sulla poetica di Pagliarani nel campo
della neo avanguardia letteraria italiana
Scrive il poeta in un intervento (“La sintassi e i generi”)
apparso in “Nuova corrente” 16, nel 1959 :
“… arricchire il vocabolario non significa necessariamente arricchire il discorso, puï anche voler dire che si arreca turbamento e confusione . Nessun vocabolario ha illimitate capacità di adattamento …” e più avanti : ” … il genre poemetto, il kind poesia didascalica e narrativa sono proprio gli strumenti con i quali in questi anni si esprimono, con premeditazione, alcuni di quei poeti che, tendendo a trasferire nel discorso poetico le contraddizioni presenti nel linguaggio di classe, adoperano un materiale lessicale plurilinguistico .”
Da queste righe ricaviamo alcune riflessione apparentemente banali ma significative sulle linee che Lucio Vetri, nel suo testo analitico della neo avanguardia italiana, pone come essenziali per capire i rapporti che intercorrono fra avanguardie del primo Novecento ( nelle loro diverse, spesso opposte valutazioni dell’ambito estetico ) e neo avanguardia : dal rifiuto dell’estetico o sua assunzione all’integrazione autonoma dell’ estetico ; autonoma in senso lato, dato che si tratta sempre di una esperienza di integrazione dinamica su vari piani, di ” un’ esperienza operante in un orizzonte di verità mondana”, di
una reciproca transizione fra autonomia ed eteronomia del campo artistico .
Ma è soprattutto a due temi fondamentali della teorizzazione neoavanguardista che le affermazioni di Elio Pagliarani sembrano
indicarci : innanzitutto quella della creazione ragionata dellla
“trasgressione operativa”, della continuazione di quella tradizione poetica europea contemporanea che, da Baudelaire in poi non aveva potuto esprimeri altrimenti che come “gesto d’insubordinazione” (F.Curi, “Perdita d’aureola”), insubordinazione alla classe d’appartenenza e al suo sistema di valori, di codici, di linguaggi …
In secondo luogo si accenna alla poliglossia, ai con-testi
linguistici (ed anche transartistici, ma non riferiti specificatamente al Gruppo 63, ed anche qui : come non tentare di mettere in relazione il positivismo di certe poetiche ed estetiche “fin de siecle” non certo avanguardista, Carducci in primis, con la scientificazione letteraria di Salvi, Pignotti e del Gruppo 70)
che, osservati a trent’anni di distanza fra gli ipertesti cyberpunk e le multiglossie letterarie delle poche acute proposizioni poetiche europee sembrano trasferire la lirica in un linguaggio che non è obbligatoriamente oppositivo o, al contrario, l’impossibilità stessa di esserlo, ma multisensorialità sensibile,
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quasi indicativamente posta fra piani e trasversalità non difficilmente identificabili .
Si pensi, ad esempio alla interazione Berio-Sanguineti ( che non è solo musica poesia, complessità di segni e significazioni ma anche, appunto “sperimentazione plurilinguistica” .
Ma non a Sanguineti-Dante Alighieri, non al poemetto-Commedia, non alla poesia-tragedia facciamo qui riferimento (attendendo la smentita) .
La lettura de “La ragazza Carla” è inscrivibile ad una prima lettura proprio sul piano della poesia didascalica e narrativa,
nel quale ci sentiamo di inscrivere l’opera .
Siamo qui ( 1957 ) nel periodo che forma il corpus poi definito della neoavanguardia . Elio Pagliarani che Pasolini, forse cedendo alla tentazione di render pan per focaccia ai suoi detrattori, indica di questa il rappresentante più “tipico e assoluto”, pur dotato di una “misteriosa linfa che conferisce agli elementi di disgregazione stabilità, grammaticalità e rigore”
percorre la sua opera con una scrittura formalmente neorealista che si apre, tuttavia, alle più varie frantumazioni e sperimentazioni linguistiche divenendo, con gli anni, sempre meno
discorsiva e lineare .
Ad una lettura anche generica della critica letteraria militante, limitandoci al periodo 1947-1980, la scrittura di Pagliarani viene
più che altro analizzata per le sue valenze teoriche e per la ricerca formale di cui il piano narrativo viene ritenuto puramente pretesto .
In realtà, leggendo “La ragazza Carla” la prima impressione è che l’autore ci voglia raccontare una vicenda (con tanto di presentazione realistica e confidenziale ) e costruire un piccolo epos esistenziale e metropolitano, una leggera epica di cheta ma
profonda provocazione : non solo, quindi, problema di genre o di kind .
“Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì . Ha un senso dedicare a quella ragazza questa “Ragazza Carla” ? ”
La ragazza di nome Carla non prende il sonnifero, sta dopo il cavalcavia di viale Ripamonti con la madre che fa pantofole ed Angelo e Nerina .
Ed è quasi un ricordo mallarmeano, svuotato e beat (ballata popolare), sincopata memoria di un “felebrige” padano sarcastico e dolente :
“Il satiro dei boschi di cemento
rincasa disgustato
è questo dunque
che ci abbiamo nel sangue ?
O saranno gli occhiali? Intanto è ora
che si faccia cambiar la montatura ”
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Collage ironico, gioco, sonorità stemperate nel frammentarsi
ludico del piano narrativo (” …la poesia nasce proprio dal gioco, dalla contrapposizione, dal collage di pensieri …” U.Eco 1964, su “La ragazza Carla”).
Lieve l’erotismo tragicomico della giovane neodattilografa, lieve e via via cinica la ballata, il taglio caustico che chiude la prima parte del poemetto:
“Ecco ti rendo
i due sciocchi ragazzi che si trovano
a casa tutto fatto, il piatto pronto
Non ti dico risparmiali
Colpisci, vita ferro città pedagogia
I Germani di Tacito nel fiume
li buttano nel fiume appena nati
la gente che si incontra alle serali . ”
( qui si segnala la curiosa analogia con una lirica del 1953, “I
goliardi delle serali” ) .
“Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo ”
insistentemente milanese, la ballata si fa tendenziosa, nel gioco di cui si è accennato sopra compare una lingua che pare legare la burocrazia all’insubordinazione dei subordinati, si insinua fra Carlo Emilio Gadda, Luciano Bianciardi ed Enzo Jannacci (all’epoca ancora attaccato ai respingenti dei tram lungo le circonvallazioni) :
” Sono momenti belli : c’è silenzio
è il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli
quella gente che marcia al suo lavoro
diritta interessata necessaria
che ha tanto fiato caldo nella bocca
quando dice buongiorno
è questa che decide
e sono dei loro
non c’è altro da dire ”
Varrebbe la pena di approfondire un poco la Milano di questo poemetto in tre parti, la città-industria neorelista e politecnica, la chiaroscurata ma nitida prospettiva di un dopoguerra faticosamente superato per costruire un “miracolo
economico” già sensibilmente nell’aria .
Città difficile da raccontare e forse consapevolmente non facile
da percorrere nei sensi e nella sua necessarietà, esigenza
di costruzione di una lingua che ci separi dalle lingue che non
possono dirla, la città, ma solo tradirla (i testi sulla
dattilografia, le uscite di Aldo, del padrone ma anche la poesia alta, il linguaggio lirico nel suo barocchismo o ermetismo ).
E’ la Milano del Marzo 1948 ma anche del Settembre del 1954 e dell’Agosto del 1957 . Bisogna tener conto di queste tre date
(quella espressa nel testo, le due poste in calce alla fine)
per definire gli spazi e i tempi di questa città .
E’ la Milano che si appassiona all’industria, che si fa tecnologico crocevia di culture (di immigrazioni, di merci, mercati, di fughe, di codici comunicativi ) città complessa
per una cultura complessa per una poesia complessa
” Chi è nato vicino a questi posti
non gli passa neppure per la mente
come è utile averci un’abitudine ”
E’ la Milano dal “cielo colore di lamiera”, “contemporaneo”,
che sovrasta ogni piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa,
“tutti i tramvieri fermi al capolinea”, cielo “morale” e di acciaio, come i capannoni Pirelli .
E’ la Milano delle luci accese, dei “segni colorati dei semafori”,
di altri segni appena decifrabili, avvertibili forse .
E’ la Milano del lavoro e della sopravvivenza, del moto continuo
che necessita spiegazioni, anche politiche .
Qui appaiono i “treni del sonno” bianciardiani e la sensibilità collettiva che si deve spiegare, descrivere, qui lo straniamento, lo stupore, la domanda incessantemente assorbita dal muoversi della città stessa, dalla sua presenza collettivizzante .
Molti linguaggi, lingue differenti inanellate nel ritmo a seguire, inglese, francese, italiano : anche qui ci viene in mente Luciano Bianciardi . Ma Bianciardi si è arreso, lo abbiamo letto sulle pagine “culturali” dei quotidiani, recentemente
“Chissà cosa vuol dire debolezza
forza, nell gente, spina dorsale .
Chissà che cosa sanno quanti sanno
ciï che vogliono, che spingono avanti la certezza
di essere, come fossero da sempre
uomini, e per sempre . ”
Filastrocca, in-certezza, paura (di attraversare la domenica in città? ” … No, no, no, Carla è in fuga negando …”) .
Procede Pagliarani, unico vero beat padano secondo Porta, nella sua “finzione” femminile depresso-maniacale, nella sua Milano
iperreale (“La storia di Carla è molto meno vera della Milano che le sta intorno; una Milano che è fatta veramente di parole, cioè di un tessuto sintattico studiato sul vero, che non scade mai a colore locale .” F.Fortini, 1960) negli uffici un po’ clawneschi un po’ infernali dell’industriarsi .
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Carla è in fuga dall’ufficio, il signor Pratèk ha provato a toccarla, ma lei ha preso la scossa, non tornerà più .-
La madre, vedova Dondi, si industria, manda la figlia con il fidanzato Aldo (quello delle serali) in visita ai Signori
Pratèk, anzi, alla signora, inadeguata a questo mondo complesso
mentre dice sciocchezze . Tutti sono inadeguati
“Atour des neiges, qu’est ce qu’il y a ?
Colorati licheni, smisurate
impronte, ombre liocorni …”
Meglio andare a passeggio per la città in compagnia del giovane Aldo a vedere le vetrine, i quadri dei pittori, un comizio o, ma più raramente, un film al cinema .
Appaiono gli operai con le bandiere rosse, i comizi, le elezioni, quelle del 1948, la Celere che scorta, il sangue che nelle vene batte a ritmo accellerato, a Nerina è nato un bimbo, Carla vorrebbe andare a votare ma è troppo giovane
“Les rouges les rouges regardez la- bas”
Ma i rossi vengono sconfitti, le domeniche si susseguono dolorose fra una settimana e l’altra
“procedendo poi i giorni come al solito
come strumento
come strumento di tesaurizzazione
come strumento di tesaurizzazione
l’oro in Europa ”
e girare per le domeniche a Carla fa paura, girare sola, in una geografia periferica circolare (via Ripamonti, viale Toscana, piazzale Lodi, viale Umbria – un accenno a Porta Romana nella nota conzone popolare canticchiata da un uomo che passa – ) in una città che muta come le scene di un teatro che si abbassano e si alzano come tese da fili che non si sa chi muova .
Infine Carla raggiunge il centro, al “verziere”, meta desiderata perchè collettiva, rituale quasi, cultura reale ( ma non avrebbe fatto prima a fare corso di Porta Vigentina ?) quasi un centro
vitale, erotico .
Aldo corteggia un’altra donna, biondastra, “poco fine” .
Domenica sera Carla decide di passare all’offensiva : la sorella divertita le insegna a mettersi il rossetto, le presta le sue calze di naylon . Questo per andare in ufficio l’indomani, iniziare una settimana fresca, desiderata, a testa alta .
“Quanto di morte noi circonda e quanto
tocca mutarne in vita per esistere
è diamante sul vetro svolgimento
concreto d’uomo in storia che resiste
solo vivo scarnendosi al suo tempo …”
La terza ed ultima parte del poemetto si chiude con gli endacasillabi “alti” e perentori sull’amore e il dolore .
Una lettura abbatanza convincente di questa chiusa “forte”
la vede inscritta nel contesto generale dell’opera, laddove i brani in corsivo ( le istruzioni per la macchina da scrivere e le dattilografe, le esplosioni crepuscolari ed ermetiste dei personaggi più stralunati ) paiono avere il senso di una polemica verso ciï che non è poesia, contrapponendosi alla ballata multilinguistica impostata sul registro di una lingua reale
( le “contraddizioni presenti nel linguaggio di classe” di cui sopra ) .
Secondo Walter Siti (1972) all’interno della ballata e delle sue polivalenze linguistiche lo scontro fra linguaggio alto e la banalità della vicenda narrata pone un problema di fondo . “questa esistenza banale merita l’endecasillabo ? oppure : l’endecasillabo è degno di questa vera vita ? ” .
Il senso contenutistico dell’opera si incontra qui con l’elaborazione formale in maniera eclatante , perentoria .
Il problema posto da Elio Pagliarani resta comunque un problema aperto al di là della sua poetica e al di là della esperienza neoavanguardista nel suo complesso, mentre sulle poliglossie e sugli ipertesti (che si vorrebbero comunque utilizzare come strumenti e non porre a realizzazione di una ricerca puramente formalistica ) nelle più recenti proposte letterarie in relazione
alla poetica di Elio Pagliarani andrebbero presi in esame molti altri testi, in particolar modo “Lezione di fisica & Fecaloro ” e “Doppio trittico di Nandi” .
Raffaele BB Lazzara
Milano, 13 Marzo 1994
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