Napoleone .
L’imperatore si alzò in un mattino di Francia per impartire ai contadini della Carinzia e del Basso Norico la guerra; questi ne furono talmente felici che gli dedicarono una canzoncina che ci è giunta, di bocca in bocca, seguendo il fiume del dolore, dell’odio e delle sofferenze più immonde che da sempre i conflitti dei potenti riversano sulle masse dei pezzenti d’ogni angolo della terra .
Per questo, “benedicitur Tommasi”, i ragazzi dalle grosse dita e dalle labbra secche che nello studio di Alfredo il Grande fumavano spinellini e inventavano filastrocche indiane proposero gli Orazi e i Curazi ai generali dell’Esercito Italiano impegnato in Africa .
Tutto questo alcune lune fa, lune storte e cuori gonfi di parole , quando la sincerità delle luci alla sera era d’altra figura, quando i banchieri mettevano via senza farsi notare e le piazze, le piazze pazze erano piene di gente perbene dall’aspetto caldo, le pazze piazze percorse da ragazzi di pelo di pietra e di sandalo, di seta e tamarindo e incenso buono, e cuoio e lana ed altro manufatto artigianale andino e riso e sorriso e non ancora piumino paninaro o barbetta gentilizio-hip-hop-oppio ma barricata vera di idea prima che frontiera figurativa, di fantasia al potere prima che di potere alla noia della follia …
Questo dunque il tempo, l’età, il colore ed alcuni dei materiali usati per fare, se non la rivoluzione, almeno qualcosa che la presagisse, le assomigliasse e potesse essere propedeutica ad essa, anche per abituare i papisti, gli sbirri e i padroni che c’erano
ancora pochi mesi per loro e per l’oro ; fascisti, borghesi: ancora pochi mesi …
– Non ci siamo arresi ! – esclamò un secolo dopo il cantaballe di turno mentre animava la serata di un Centro Sociale .
Intanto, e proprio per non arrendersi all’Evidenza come fanno i più ( quelli che fanno ma non sono ancora, gli altri non saranno presi in considerazione in questo contesto ), comincio a raccontare, poichè ven’è bisogno, la poesia del mio sogno cheto .
Non si può raccontare la poesia, dirà qualcuno .
Non si deve – asserirà qualcun’altro .
Intanto la sera è divenuta notte e la notte già mattina, la camicia slacciata, le maniche rimboccate, una sigaretta accesa con la sua piccola nuvola azzurrina che lo circonda va l’amico a chiudere le finestre mentre la luce della strada gli rimanda il gioco di ciglia dei fili tramviari al vento .
Mattina forse di Domenica, comunque fesitiva, silente . Freddo pungente, punta di pistola
La luce al neon che illumina il marciapiede di rosa la dice lunga : la vita è bella quanto artificiale qui in città : Non basterà il piano prefissato per la rapina alla banca; non funzionerà punto .
L’amico soffia sulle tende di pizzo bianche, cotoncino o finta seta al poliestatymicineide, si passa una mano fra i capelli. si stende in poltrona e si addormenta così, mentre passano i primi tram .
Dormirà ore, forse giorni .
La ragazza che studia musica barocca all’Università di Bologna arriva a Milano con il treno delle quindici e ventuno . In Emilia pioveva forte, una pioggia accanita di Marzo, d’Aprile, ma anche di Settembre, d’autunno di torbiera padana dura, chitarra elettrica e batteria, impermeabile crema bagnato fino alle ginocchia e sulle spalle, spalle tese da un po’ di preoccupazione, forse un po’ di reumatismo, un torcicollo grigio d’acquazzone vitale di San Vitale di primavera incipiente di orinale rotto di grondaia spezzata arrugginita cascata malattia di mattina oltre il vetro dell’autobus condensa di fiato leggero di roggia di pozzanghera di loggia e cuore celeste-celestino, ombrello turchino e tergicristalli in fila a Porta Saragozza e bambine dalle lunghe calzamaglie di lana fradicia, bambine dai capelli mogano con la punta delle scarpine umide come un’ombra sul cuoio e gli occhi annacquati a Piazza verdi sotto i portici e poi di corsa fino a metà della strada e poi indietro e poi di nuovo di corsa verso l’aria fredda e il bar pieno di ombrelli appesi agli avambracci caffè cappuccio una borrella segatura tic tac ore otto e venti .
Ma quando la locomotiva fischia entrando in Lambrate già il sole
ricorda ch’è Marzo, ch’è jazz e ch’è blues .
A Milano sarà un sole che apre le fioriere delle portinerie nei cortili del centro e i bar e le ragazze si spogliano e i terrazzi pensili lungo le circonvallazioni si ostinano a sporgere per i pedoni che aspettano in strada qualcuno e hanno il tempo d’inseguire le nuvole le ragazze le briciole di pane oltre le panchine che si riempono di panchinari ragazzini plastificati algerini neniosi e gagliardi bastardi disgraziati e barboni e vecchine e signorine con bambini e bambine e carrozzine e sacchetti gonfi, sportine della spesa, il pusher della fontanella fischia alla bonazza che legge Spinoza e ch’ha l’esame il dodici alle nove in aula tre a Pavia, ed io sono un poeta o piangerei, sto già piangendo, mamma guardami le mani che mani sudate che lacrime dure che ho fra le dita , la vita .
Domani .
– Non ho nulla da perdere – pensa il fattorino della rosticceria all’angolo durante l’ora di pausa e va in banca a prendere un due trecento carte dato che un affitto non arriva a pagarselo e Vittoria non lo vuole sposare tanto vale spendere tutto e subito e va al bar e ordina due panini prosciutto e formaggio con sottaceti e una birra ghiacciata e si siede al tavolino e mangia e beve e guarda le impiegate degli studi notarili che indossano i loro completini da rivista specializzata e va in bagno e si masturba e
viene subito e aspetta che s’ammosci e piscia e si lava le mani ed esce ed è ancora più infelice e la luce lo ferisce e intanto monta e cresce la piaga del suo cuore fra le rughe su nel viso .
Non è morbida la luce per nessuno nel cortile . Scrive un gesto della mano il professore è una fogna una fontana la città che ci è sovrana, sale il sole meridiano .
Scende e termina il biancore fra le sbarre alla finestra: si preparano i cocktails per l’aperitivo mentre ancora gli ultimi geometri finiscono le discussioni e i toast e un vecchietto entra nel “Robinson’s Pub” di Nicola e chiede un calice di rosso che – gli vien detto- non c’è, non c’è più da qualche anno, ma ci sarà, dico io, ci sarà nuovamente dopo la fame, porcodio, ci sarà .
Una madre di famiglia si lascia indietro il borseggio d’una amica,
passa con il passeggino tricolore fra due artigiani che compongono fioriere incredibilmente belle, sfiora le vetrine oscurate di un mansturbatorio di gruppo per anziani, uno di quei campi di concentramento per la terza età bisognosa di carezze e froci liberaldemocratici, oltrepassa un ponte oltre il muro di cinta del castello e scompare nel budello del metrò amore amami ma non lasciarmi mai, toccami le gote piano con le dita, scrivimi di te
scrivimi a matita, cancella, riscrivi …
Il poeta se ne sta sulla terrazza in piena luce e legge o forse dorme .
Esco e vado a fare una passeggiata nel rumore che il cielo azzurro assorbe e il sole, compro le sigarette, compro il giornale l’ora e l’anno e forse il secolo . Conduco un’esistenza malferma e forte, sono l’equazione insicura, il limite della sera e dell’alba, sono il vuoto del bicchiere che reclama, il buco del cesso che non restituisce mai, la finestrella che cela il mondo tondo, l’apparenza che precede l’entità sovrana, la potenza ch’è dell’atto ancella bella, sono il pettine senza denti, la nottola in volo, la guancia rossa della sorellina contro il muro della scuola, sono la pistola che esce di tasca un secondo prima del sacco d’una banca, sono il filo che non si è ancora spezzato, sono la lingua in bocca della bocchinara, sono la bara ancora aperta, la fiamma dell’accendino Bic sull’isola deserta, sono la coperta di flanella nel letto di cartone del profugo slavo, sono la pelle dell’acino d’uva, la montagna di parole che non dirò mai a chi non ascolta che il buio o la luce, sono l’ancia che vibra oltre il tono e il semitono, sono il sogno d’un pinelli in volo, sono il vento che non è cielo ma non suolo, sono al verde, un’eternità a cercare un progetto ben strutturato per vivere alla giornata, un pensiero che si elevi al non-pensiero, una spiegazione che metta l’anima in pace e lasci il resto del tempo alla meditazione, all’estasi, al cantare del più oltraggioso canto …
Ed è tramonto, ma tramonto tramonto tramortito m’invito a bere il famoso aperitivo : ci sono Gallo, Vischio, Popolov sergente boemo a capo d’una setta di pinocchi integralisti, Lenin che porta sulla giacca il simbolo eterno della rivoluzione, la spillina con il volto di Giorgio Mascitelli, l’Abate Fozio, Gesummaria, Giona, la Balena e Giuda Isoscele, il furfantello leghista .
Più tardi è sera .
L’aria calda della primavera esplosa porta l’eco lontana delle sirene di polizia e carabinieri . Arrestano alcuni sovversivi, ladri, ruffiani e prostitute, anarchici, democristiani .
Tuona .
Inizia a piovere .
Quando esco, pochi minuti più tardi, le strade sono oramai lucide d’acqua e piene di pozzanghere ; piove talmente forte che l’ombrello non mi ripara, sono costretto a seguire i muri .
All’incrocio i semafori lampeggiano . Una volante della polizia è ferma sotto l’uragano : le luci roteano lampeggiando sull’asfalto, le portiere sono aperte, i poliziotti si muovono come ombre di nebbia; stan perquisendo due ragazzi . Li conosco, sono Trillo e Pistillo, due militanti comunisti . Li troveranno due ore più tardi morti in un fosso, con le manette alla schiena e un foro d’arma da fuoco alla nuca, poveri figlioli .
Allungo il passo, il bar del biliardo mi aspetta, ho puntato cento carte su me stesso e non intendo fare aspettare i perdenti .
Fumo la mia sigaretta e sputo catrame e catarro, scorre la stecca fra le dita ingessate, scivolano le biglie e toccano piano, dolcemente sul panno, secche, tac, verde panno tiepidamente riscaldato, madre di tutte le battaglie, sponda su sponda ed occhiata al naso di Vischio che si arriccia piano, alla tesa del mio cappello che si abbassa a prendere la mira, alle dita che cercano di dare la fantasia alla fisica dei solidi, l’azzardo del bel gesto e della predestinazione, del salto scaramantico che possa aprirci orizzonti imprevisti – o tanto furiosamente desiderati ! – che siano la geometria dei sensi e non quella oscena e povera su cui si regge l’Universo e si calcolano gli angoli di incidenza, le dita cercano il sogno che porti la possibilità rosavestita di una vittoria giocata con lo spirito e non con quella abilità ch’è abitudine e noia, alcoolismo, quella abitudine da conseguire con lo studio e la scelta dei materiali e delle metodiche, delle banalità economiche e feudali, della nostra figuretta stenta di mortali …
Cerchiamo il tiro che dimostri l’apparire del dono magico, dell’etica applicata al piacere, cerchiamo i due punti fatti per sbaglio e l’errore nel polso avversario, l’errore che ci faccia vincere da bere o solo da poter dire : … l’Errore !
Fuori piove, la saracinesca è abbassata, la luce rosacea del caffè impone a tutto il viale alberato colori anormali, impasticcati,
chetamente frastornati , gli ippocastani incatenati sospirano il fritto e la luce dei neon gonfi da far paura ai lumini dei tram che scivolano via disperati oltre la linea notte lingerie camiceria uomo ferramenta ricambi auto prevendita biglietti
persiane morte come denti spezzati fra le case in sonno lieve,
fischia un treno alla stazione parte ritorna qualcuno che non sappiamo il nome ma è lui di sicuro .
E infatti ecco che nel bar si apre la porta ed entrano un gruppo di vagabondi immondi pieni di sacche e tasche e cappelli di pelo e si comincia a ordinare caffè e birra caffè e birra ancora uno ?
Grazie si .
Mi metto la giacca, il cappello in testa, pago di corsa ed esco,
sotto la pioggia veloci, si va, Vischio mi segue rificcandosi in tasca la collezione di preservativi africani che ha perduto a terra incidentalmente mentre pagava il conto, sporcando tutto di segatura bagnata .
Muoversi, diobòn, sarà l’una l’una e mezza, ci aspettano ?
Non si sa .
Non ci aspettano . Da questo punto di vista allora, sapendolo è ovvio, sarebbe stato meglio restare a bere un caffè ancora, od una birra .
Dunque ha smesso di piovere .
Io torno a casa e me ne sto a leggere sdraiato sul letto, leggere e rileggere e fumare .
Suona il pianoforte, la batteria .
Ha smesso di piovere, per ora, per oggi, per stanotte .
Giornata bella, giornata di sole .
Papà esce di galera, rintronato . Si apre la porta, il cielo è uno specchio di luce . Ma fuori non c’è una automobile comprata per pochi dollari e il fratellino con gli occhiali da sole . Fuori c’è
la grande città silenziosa . Papà esce di galera, rintronato : i suoi bambini sono tutti morti ed è morta anche la mamma ; gli zii, si sa, sono in collina a scrivere saggi d’estetica cluniacense, chierici pieni di boria .
Non che sian morte le idee, ma forse è la gran noia, mascherata da questo e quello, che fa in modo non si possano più prendere in esame : quale immaginario di massa !? La filosofia e la politica non l’han fatta mai le masse, e pace a Zio Bertoldo !
Comunque papà esce di galera, rintronato, e il cielo e un vaso di oro zecchino rovesciato a cono su questa città malata .
Frutti di caramello per una sete pazzesca : i ragazzi che lavorano al centro sociale terza età sono al quarto livello ed al secondo impiego . Alcuni si leccano le ferite vicendevolmente . Comunque è una pausa di pranzo-o-zona sciopero e si dannano a giocare la palla nel pratone dei giardini .
Scarto la palla a destra, palla troppo piccola per i miei piedi audaci, corro giù a perdifiato ma tanto c’è Gallo ch’è un cannone e lascio perdere senza neppure farmi contrastare e il gioco riprende con un lancio in un altro settore, quello in cui stanno abbracciati due studenti del ginnasio, e via, colpo di punta dato male e Papa Giovanni è a terra – rigore – no che non lo è e via via passa la palla troppo grande per i miei piedi imbranati ma corro lo stesso giù per il prato impazzito verde margherite margheritine e fiorellini rosa rosati blu oltremare e turchino e pratone di odore di narciso giallo di violaciocca e sopra il cielo e lontane le case, tutte le case d’arancia e specchiera,i tetti di verderame Parigi-Ginevra- Dakar- Mongardino, i tetti di camini in festa di roba ad asciugare e giardini pensili come in Babilonia Mater, piccioni nucleari in volo sopra i fili del filobus sopra le persiane aperte dalle massaie incerte che sbattono tappeti a tutte l’ore sopra le cantine inquiete dei tintòri sopra i covi dei terroristi armeni sopra gli appartamenti periferici dei poeti inconsapevoli sopra le macellerie ed i mattatoi e i divertifici ancora chiusi .
Disteso nell’erba a respirare la luce, il bandito . Teneva un libro in mano, chiuso, ma con un dito infilato fra le pagine a ritrovare il filo perduto nello smarrimento dell’aria primaverile, aria bella di Marzo od Aprile, sonnecchiare di cappello calcato e poche altre cose se non la tiepida indolenza che lo lasciava lì imbucato in un cantone del nulla – o del tutto – .
Le bambine passavano rincorrendosi, una cadde e si sbucciò i polsi ma si rialzò senza dire nulla, mordendosi solo un poco il labbro per non lamentarsi . I cani si azzuffavano e i loro portatori – i ferofori di fiera – si rimbecillivano fra lor lanciandosi battute
– Non fa niente bella bestia un bravo cane – . I ragazzi del centro sociale per la terza e quarta età della seconda era del primo mondo erano oramai sette a sei e dai, passala a Zio Fiele, diocane, tira ! Il chiacchierone ammutoliva, la bellezza d’ebano toccava il cielo con un dito, il guardone chiuse gli occhi e si assopì sincero .
Passa il poeta, scende e trascende il vialetto, inciampa in un cane lunghissimo, gesticola e sorride verso i panchinari nazisti che si apprestano a dar fuoco al centro per la terza età quarta di seno, entra nello spaccio dei fognini . Karlo Marx sta proponendo a Charlie Chaplin una partita a scacchi . Il vate ordina il solito, una spuma rossa in boccale con ghiaccio e limone di Sicilia, e resta sospeso a guardare il proletariato che gioca a carte e a morra, a scacchi a backgammon e a “dentro e fuori”, espressione quest’ultima semioticamente complessa del travaglio sindacale .
Karlo Marx invita il vate a sedersi con gli altri. Fuori un camion s’incaglia nel portale e un operaio assassina il suo collega di turno per poter concludere una discussione calcistica avendo ragione assuluta, di rigore – Non c’era! Non c’era ! Ti dico che non c’era ! – il sole ricorda alle vetrate il fango invernale,
le mosche estive di fortunale e tant’altro forse di frasca autunnale in volo piovoso e gingerino versato e cortile ombroso .
Passano le gazzelle nel deserto dei nostri animi consumatori : hanno arrestato altri sovversivi, democristiani, donnoni brasiliani, venezuelani, portoricani .
Ha ha ha ride lo scheletro del mio armadio, incombe sul letto matrimoniale purpureo e, con un rumore secco, terribile, si schianta su di me soffocandomi . Male ho fatto a non morir in battaglia o sui campi da gioco o nelle pieghe dell’amore o nell’estasi dell’odio, nelle pretese estetiche della vendetta !
Morire nel mio letto, si, me la son voluta ; e poi, di Marzo !
– Saluta la mamma ! – e il fantolino se ne strafrega e corre via con gli altri su e giù per il prato . Se ne strafotte anche la zia in maniche di camicia azzurra, del resto e conversa con la vicina panchinara del taglio e del cucito dell’ordito orrore orrore che l’insegnarono le suore nella sua età migliore ma poi, poi ci si rifà e trac e trac fuori piccini come vuole il santo padre e poi la natura comunque, o no ?
Il bandito si alza dal suo prato, sfinito . Apre il libro al segno, guarda con gli occhi protetti dal cappello i ragazzi della terza età che ci danno dentro e son già dieci a sette con ribaltamento di fronte e passaggio calibrato e se ne va schivando
una bestia lunghissima e mostruosa che gli sguscia fra le gambe .
Sette di sera e tagli di luce obliqua . Nera è la strada e Mephisto che se ne torna dal suo noto girone, giù dal vialone di periferia terribile con i figli della bomba e del cartoncino .
Li, attorno ai minareti della grande barbarie l’impiccato senzaforca ascolta i racconti dei rifugiati: fragoline tenere sotto il temporale, cantatori di fiabe piccole e disperate, musici di metallo rumore rivolta e tafferuglio, spacciatori di polverine pasticchine confetti caramelle patatine gomma plastica antracite alluminio quarzo carbonio handicap girotondo linea di fuga senza avvertimento nè presentire alcuno .
Domanda terribile, senza risposta, alta come la vita e causa di afflizione quella che si pone il buon Mephisto, demone della bellezza : sarebbe stato meglio esser nati nella nostra valle, sul nostro monte, lungo la nostra costa o nella foresta e poter giocare di scarto il nostro ruolo o è meglio questa fuga dal niente, questa obbligata devastazione estetica questo vagare, il nomadismo dei poeti liberati da niente, dei pirati imbarcati nel saccheggio di una cultura già depredata, dei veggenti di un qualcosa che non si sa dire o forse non importa a nessuno che si dica, men che meno alla tribù rapita del nostro cuore buono …?
E’ preferibile la mia, la nostra condizione d’artisti, d’esteti in lotta esplosa lungo le fila della luce e del vuoto involontario o quella d’altri che scelsero l’eremitaggio e la vastità dei loro orizzonti – non li subirono ! – o anche solo lo spostamento d’un grado dal loro destino sociale, quello che dalla formulazione alterata d’una preghiera porta allo scetticismo e all’eresia e da lì all’ateismo o alla storia …
La domanda si perde nella complessità dei segni che manda il crepuscolo sulla strada nera d’asfalto e torna a casa Mephisto,
tornano a casa i suoi pensieri come uccelli in volo ad Oriente, il velo misterioso dell’infanzia e del dolore che lo vollero come me, come te, disertore infelice e furibondo e non alpino cheto, alpino che va sull’alpe e fa il formaggio o la guerra o la resistenza armata antifascista o la balla trista e la cantada e ha la morale da portare sempre in se sotto il cielo stellato anche d’altri mondi, d’Argentina o di Milano, e la fiaschetta e un “mandi mandi”
ed altro ancora che lo salva e salva anche noi, la nostra storia segreta, non svelabile, lontana e cara che serbiamo qui, nell’angolo migliore del cuore gonfio e avvelenato …
Porta il bicchiere alle labbra intanto il tipo lì sul bancone del bar americano fra un cocktail abbandonato e un salatino viola .
Sospinto come dal vento sopra la balaustra il capitano pirata si chiude l’imparmeabile giallo con la fibbia e sospira profondamente
mentre sale la marea sulla città, l’aria diviene spessa, montano le nuvole e il sole annega oltre lo specifico del poco che si può guardare : abituati alle nebbie e ai muri i corsari padani han sviluppato la fantasia e l’immaginazione . Forse non sanno più vedere altra realtà che la loro marcia follia di ruhm e tartine,
di saccheggio e arrembaggio e sarcastico viaggio sopra treni
sotterrati, catacombe materne per i vivi, giostre coloratissime di banche splendide come caravelle al largo delle Azzorre, come galeoni spagnoli pieni d’oro, tesori, pappagallini e indios alla catena alla fonda alle Canarie, come vecchi camioncini combattenti in quel di Cuba ove mostra l’anca bronzea la negretta comunista e l’idea stessa dell’economia inventata si svela terra ed onda, sargasso scintillante di mercante salgariano che si batte e ribatte e totalizza cento punti, appende il generalissimo a Piazzale Loreto e ricomincia un’altra mano .
Il capitano pirata getta la cicca accesa fra le onde del Naviglio Grande, laddove è il filo dell’acque .
E, incerto fra il riso e il pianto, fa un gran ritto .
Ma io sono altrove !
Altrove, altrimenti, in altro luogo, alteramente, liminarmente, in altro modo, in altra maniera, non così, non qui, distante, fuori, oltre, per strade diverse, per vie traverse, da un’altra parte, via, lontano, lontanissimo …
Mi son perduto a tre anni nella brughiera di Proserpina e me ne son stato con lei ad imparar le vie della sincerità e dell’eloquenza . Basta . Punto . Tornato nel deserto sono stato costretto alla resa . Ma non per sempre . Mi hanno rubato l’eloquenza ma non la sincerità, la gioia ma non il segreto e quindi chiudiamola qui, non fatemi dire di più, potrei arrabbiarmi, anche se lo san bene i tigrotti, Mama Beha, Zio Anselmo d’Avasinis e gli operai dell’acquedotto che non lo farei .
Nevica sopra le tastiere dei computer, sopra i monitor, sui visori televisivi, sui tasti del topolino ad alta tecnologia, nevica nel mio cuore artritico, come disse la poesia classica .
Neve e luce a primavera sotto la stazione, al centro dicono e dan le carte, un due tre .
A furia di scegliere mi trovo per caso in balia degli eventi, si, ma non facciamo finta di niente : l’ingenuità non c’entra .
“Gli uomini scelsero le tenebre piuttosto che la luce” dissero quei due bei tipi, e avevano ragione . Sincerità, senso ai sensi,
solidarietà, consapevolezze … non è vuota morale, ma la condotta esiziale per esistere meglio … quali leggi ! che Stato ! un po’ di buon senso e una maggior apertura all esperienza, al conoscere,
sarebbero anche d’avanzo !
No, no, non fatemi continuare …!
La musica si apre, si aprono le finestre e il sole fa capolino fra le nuvole : è quasi mezzanotte e c’è la luna piena: rotonda e
divertita illumina e sorride splendendo sul cammino del poveraccio che va da solo per la sua strada e forse sta fischiettando e forse non si è mai sentito così bene che non ha catene se non quel poco che ancora lo tiene a terra e non lo fa volare, partire come un moschettiere guascone per la nostra sorellina a fare un giro,
un girotondo là in cima come una danza latina come musica strana e felina, musica aliena, non umana, canzone serena d’uomo che in pena fu ma sarà libero e liberatore, libertario .
Il bandito entra nel bar ed ordina una tequila con fettina di limone normanno . Dal viale alberato, sotto il fortunale, giunge il capitano pirata che domanda una granita ed un caffè corretto rhum .
Il poeta arriva con Gallo e Vischio, comandano birra e gingerino, spuma rossa . Lenin è là – colà – e sorseggia un acquamenta .
L’impianto filodiffusione manda sordide note di chitarra stranita in quell’aria viziata ch’è poi la vita .
Piove .
Si apre la porta, il vento penetra gelido nella sala fin’oltre il banco, qualcuno si volta imprecando .
Poi, come se uno schiaffo avesse fermato il moto ondoso del tempo, tutti restano immobili, ammutoliti .
– Comandante! – esclama il barman toccandoGli un lembo della giacca di cuoio con una mano .
La puttana bionda seduta al tavolino di fianco alla cassa scoppia in lacrime nascondendosi la faccia fra le mani .
Lenin scatta sull’attenti, quindi va a prendere una tazzina, la posa sotto la macchina del caffè e ne prepara uno, versa mezzo cucchiaino di zucchero di canna e lo mescola ; Vischio solleva la chicchera e la porge al nuovo entrato .
Questi beve il caffè in un sorso, sorride e benedice .
Poi alza guantata la mano ad indicare la via : il bandito e il capitano pirata, il poeta, Gallo, Vischio, Lenin, il barman e la puttana bionda Lo seguono .
Moscardino il lustrascarpe accende le luci dei tavoli da biliardo,
si montano le stecche, si ingessano i puntali, si azzerano i punteggi .
Hasta siempre, Comandante !
Le automobili passano come motoscafi giù lungo i vialoni periferici : piove, pomeriggio di Sabato lungo il silenzio dei boulevards di Marzo .
Fischia la teiera sul fuoco . In cucina, la sento, si muove, la mia avventura strana d’amore, cerca fra le tazze due simili, i piattini, lo zucchero e i grissini …
La mia bella ventura di carne chiara e occhi felici, il mio corpicino cuoricino di bimba sottile di capelli a festa di sorriso bianco di labbra di luce di seni di madre tersa di seni caldi di seni coni di splendore volitivo, di mani come uccellini al giardinetto, di lunghe mani carezze infinite sulla mia pelle vecchio straccio, sulla mia carne corrotta e gonfia, sulle mie guance stanchissime e tremanti, di mani dolci da tenere e respirare e basta e poi basta …
Io sto nel letto e non penso ma assorbo ciò che mi circonda o presagisce un’ esistenza o una sua fantasia : il cassettone scuro, la specchiera al muro, il cielo duro e di pioggia là, alto fuori dalla finestra aperta sulla città deserta, la casa che continua oltre la porta, la voce distorta di Serena che canticchia, la luna di cartone attaccata alla porta del bagno, la coperta gialla a terra, sul pavimento di legno …
Bevo il mio tè e le accarezzo il viso . Sorrido . Mi sorrido .
Ah, la vita dei narratori è questa, lo ammetto : giocare a biliardo col Comandante per diletto, amar le signorine più dolci ed aggraziate, far dell’estate inverno e in inverno l’estate, sfidare a duello i mascalzoni e i preti, alzar la penna contro il
tiranni che emanano decreti, andar per funghi in compagnia dei moschettieri, vogare sui Navigli comandando velieri, dire a questi ed a quelli di starsene accorti, scender nell’inferni e parlar coi morti, andare avanti o indietro, risalir la china e ricordar ciò che si deve a questa assassina di Babilonia nera, di Sistema farabutto, prendo il capitalismo – sai dove lo butto? – ; lo butto con lo stato nella fogna della storia perchè la mia è poesia
ma ha rispetto e memoria .
Da alcuni giorni sono chiuso in casa . Scrivo un poco, leggo ciò che mi capita, dormicchio . Siedo con le spalle al muro, nell’angolo del salotto . Ho paura . Gli alieni, i mostruosi extraterrestri che vogliono conquistare la terra con l’orrore sono tornati, lo sento .
Mi appariranno altissimi e magrissimi, bianchi, fosforescenti e mostruosi, malefici . Io non sopporterò il terrore e morirò .
Piove .
Le ragazze con i capelli colorati, gli orecchini, gli anellini ovunque, le giacche di cuoio strappate e macchiate di vernice color crema viola neon, le ragazze fumano sedute sul gradino e si passano una bottiglia di birra .
Ribelli di sedici anni consumano, declamano il messaggio che sarà ben cultura popolare ma non vedo l’altrove che ho sognato un tempo nè quello che vivo ora .
Non pensate che pianga, no, basta questa pioggia che mi bagna ed anch’io la mia cicca e la bottiglia di bumba babbà, sono solo stanco e chiacchiero con i vecchi trasvolatori olandasi e ce ne diciamo, anzi ce na cantiamo.
Oltreconfine, oltreoceano la signorina d’Argentina prende la sua borsetta, la sacca, e porta lontano i propri occhi, il volto bellissimo ed altero, i lunghi capelli scuri, latini, gli zigomi cheti e meticci, la storia liquorosa del bisnonno piemontese trasvolato altrove ; come il bisnonno del Marchese Maremmano, il Capo buttero che venne sfidato da Buffalo Bill e lo vinse a cavallo dei suoi bufali neri d’elegia etrusca, furente .
Racconti dei marinai d’Amsterdam si sconvolgono in fiabe affricane, i rastauomini della stella rossogialloverde che fanno altro – dice lungo i portici il Grande Sciamano Scienziato – altro da loro, ribelli dalle braccia abbronzate, ex contrabbandieri che hanno la dolcezza del cuore nella voce e nelle loro liriche vivissime, vissute .
Disertori, vagabondi, mezziuomini e mezzedonne, madonne nascoste od esposte al pellegrino che macina la polvere bagnata sotto i piedi .
Torno a casa, a casa .
Ma dove ? Jo o no soi .
La verità è questa : sto andando all’assalto .
Sogni in liberazione .
Distinzione di voli pindarici .
Serena si è addormentata al mio fianco: la luce pomeridiana entra dalle persiane socchiuse ed io me ne sto così, libero, con gli occhi che guardano, o meglio, vedono il soffitto . Il giradischi lontano manda una musica caldissima come il fiume de oro, un turbine di trombe accese in questa giornata autunnale di Aprile .
Bacio la mia festa di nuove possibilità, la mia donnina dinamica
che pesca dalle sue tasche fantasie e giochi di vento e vastità ad ogni istante, la bacio sulla schiena bellissima e salto fuori dal letto azzurro, mi scaravento in bagno, sotto la doccia e canto quella canzoncina che sappiamo tutti quanti nella tribù .
Mi vesto ed esco, vado a comprar pane e fagioli, sigarette e giornali e un regalino per Serena, una mano di ladro mozzata e mummificata allo spaccio della Sacra Moschea Riformata dell’imam
Alì Ibn Babà .
Le ragazze del collegio femminile Santa Diamante Pillitteri giocano nel giardino prospicente l’Abbazia di Sant’Onofrio Papa
si lanciano i cerchietti, il volano, la pallaprigioniera .
Nelle loro vestine blu scuro, con le loro camiciole bianche di pizzo, con le loro calzine chiare su quelle gambine dalla carne tenera si rincorrono per i prati e le aiole allegre e dispettose .
Mama Beha, la lesbica grassissima che abita sulla panchina del
viale, a quella vista non può trattenersi e tranquillamente ma
in modo efficace si infila una mano nella gonna sbottonata e, infilate due dita grosse e gonfie su per la vagina si inizia a masturbare lentamente .
Una tutrice del collegio forse se ne avvede, forse lo sa da sempre e le piace che qualcuno apprezzi quei modellini maliziosi che lei stessa disegnò in gioventù per la nuova divisa delle ragazze, e che provò sulle allieve pezzo per pezzo, affannandosi un poco sì, con quelle calzine bianche o color celestino su quelle gambine color di pesca, con quei pizzetti old fashion su quelle castigatissime scollature – le castigava lei di persona ! – di colli di passerottino di pelle bambina profumata … !
Non giocava anche lei, d’altronde, con le sue piccole a “Dai e dai”, a “Ce l’ho io”, a “Tiramolla”, a “Farfallina cieca “, a “Dove- sei- che- non- ti- vedo”, a “Formichin formichina”, a “Balla la ballerina”, a “Zigozago”, a “Tric trac marazzule” …?
Non le controllava lei tutte le sere prima che si coricassero e
si incaricava personalmente di istruirle quando le scopriva a fare le cose sporche, tutte quelle cose terribili che non si devono fare e che son peccato mortale e che le sue piccine facevano sempre, tutte, come del resto faceva anche lei ma solo quando, nascosta, a notte, nella sua severa camera da letto d’istitutrice pensava e ripensava, insonne, alle scuse balbettanti e colpevoli delle fanciulle scovate ad accarezzarsi, a sfiorarsi l’un l’altra con le labbra e altro altro ancor più terribile e bellissimo nella tassonomia dell’Inferno … dio mio ! dio mio salvaci dalla tua ira giusta e santa, salvaci dal peccato nel quale, meschine siamo
precipitate, Signore, non castigarci con le fiamme dell’Inferno, prendici con Te, guarda, guardami nel mio letto sfatto ed afro, guarda come mi contorco nello spasmo della contrizione, sono tua, non essere troppo duro nella tua vendetta, guardami qui, ora, sono ancora giovane, sono ancora bella, i mmiei capelli sono ancora scuri e liberi qui, sul cuscino dove li ho sciolti, la mia pelle non è ancora avvizzita, la mia carne è piena, i miei seni costretti nei loro corpetti sadomaso puntano ancora la luna, guardali Signore, sono tuoi, sono tua …
Mama Beha finì la sua operazione e si asciugò le dita sulla gonna che tentò di richiudere .
Tirò fuori dalla borsa di vimini la sua bottiglia di rosolio e la stappò scolando giù alcuni sorsi .
Il sole illuminava a tratti fra le nubi la città terribile delle cinque pomeridiane .
Il bandito accese una sigaretta e, accortosi di aver finito i cerini, buttò via la scatola con gesto deciso . Giù nel metrò
alcuni musicisti stavano dando vita alla jam session della settimana . In superfice un ragazzo albanese era stato bloccato sul tram dai militanti del “Fronte Tricolore Occidentale”, gruppo di giovani diportisti che alternando le visite all’università del Sacro Cuore con quelle allo stadio di San Siro erano enormemente preoccupati per le sorti della cultura europea dato l’avanzare dei terroni di tutto il mondo guidati dal complotto americano-giudaico-massone che aveva avuto inizio nelle lotte per un giusto salario agli operai delle fabbriche e delle officine e nella giornata lavorativa di sole otto ore -solamente!- , sinistra profezia di una umanità non più saggiamente guidata a massacrarsi reciprocamente dai buoni Re taumaturghi, dagli hobbsiani Tiranni dinasticamente ricchi di sapienza e virtù preclari …
Il giovane albanese, soccorso da due volanti della polizia, fu quindi multato perchè non in possesso del documento di viaggio e quindi tradotto in questura per essere espulso dalla città in quanto “indesiderabile” esprimendo così il pensiero di tutta la popolazione lombarda, notoriamente fastidiosina bella bimba bambina, che di poveracci affamati ama solo quelli con due belle tette, giovani e disponibili a far sfogare l’individuo maschio occidentale tricolore in più modi e, naturalmente, al riparo da occhi indiscreti …
Il poeta tornò a casa e Serena non c’era più: aveva lasciato un biglietto sulla specchiera absburgica : “Caro amore mio, mia bella bomba di passione trallallà, parto volontaria per il fronte, vado a difendere il Ponente dal Levante, dal Meridione e dalla Tramontana, stammi bene, tornerò spero presto, spero non mutilata.
tua Serena bambina passerotina ” .
Fu in quelle ore che le armate arabe di Alì Aladin Abu Shaker passando i monti dell’Atlante, dopo aver distrutto Ceuta e le sue guarnigioni spagnole e francesi, attraversarono Gibilterra su canotti e barchini e invasero Granada e l’Andalusia passando la popolazione a fil di scimitarra .
Ci separammo giù per il viale . Io me ne andavo a fare l’arte e lui se ne andava giù per il filo dell’acqua .
Pioveva nuovamente, l’aria era libera, Lollo vendeva acidi in via Lulli e si credeva Gesù Cristo, solo che era meno sfortunato del Figlio di Dio e più antipatico .
L’indomani era un violino rotto sul davanzale . Si sarebbe bevuto un bicchiere di vino rosso e fischiettato “La bella Gigogin”, e cominciò a tirare vento .
Diomio come son triste, vorrei aver vicino qualcuno dolce e buono che mi consoli un poco …
Mi consolerò da solo cercando fra le fiabe rilegate e nascoste su in quel veccio armadio .
O uscendo fuori, via, nel deserto fra la luce imbirbantita del sogno .
Sono la luce che viene
la nave in balia della tempesta
sono la mano del furfante che borseggia
quella dello sbirro che ammanetta e arresta
sono la gonorrea, il mal di schiena
il mal di testa
sono la barca vuota che
cozza quella piena
sono la mano spezzata del pilota
l’occhio del pirata
il sorriso
sono il latte versato
il tuo pianto, bambina,
sono la sera angosciosa
l’alba tragica
la Cina misateriosa
l’ultima mattina d’inverno
a Mongardino
– Maggio sereno –
sono il passo in danza della bambola
il burattino in viaggio
l’aedo che decanta il vino rosso
sono la mania di persecuzione di Al Barabba
la linea della mano che assomiglia ad altro
la paura del cortile vuoto a primavera
la pioggia che non sa capire
la nebbia, il non visibile
l’orrore
l’amore che non sospettavo
no .
“Grande cielo mi sovrasta:
folle corsa!”
12 aprile 1993
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