Chialtres

Trima man trima
che li peraules
i esce contentes.
No faviele de vo
no meretâ nua
e faviele de chiei chi piert.
E faviele de chialtres.
Chiei cu la musa
bieliscima.
Granda coma al sorele
ca rît anc’ de dolour
spiciota can 38 dinc’
a ju piert par strada
barba fata e no fata
da nin vizious de cjcolata.

(“Patrie dal Friûl” n. 7, 1993)

Gli altri. Trema mano trema / che le parole / escono contente. / Non parlo di voi / non meritate nulla / parlo di quelli che perdo. / Parlo degli altri. / Quelli con la faccia / bellissima. /  Grande come il sole / che ride anche di dolore / risata a 38 denti / li perdo per la strada / barba fatta e non fatta / da bimbo goloso di cioccolata.

par-poki

A frate Lucio

CANTO


Canta, figlio del vuoto e della cenere !

fratello mio è l’essere avventuroso
mia sorella la danzatrice cosmica

chi abbraccià Dio
chi il suono e l’aria
chi la parola
il colore
la mitezza
il fucile
i numeri
o la saggezza della droga e dell’amore

Mio prossimo chi agì
per mutare
la Grande Allegoria
in Altro

chi si risuscitï in fuoco
o si dispose in brace
paziente

chi andò oltre l’Evidente
in danza
noncurante …

e non s’arrese
alla noia,
apatia

ma alla morte
della sua
sola
Utopia .


Raff BB Lazz 31 Luglio 1993
dedicata all’Abate Lucio,
il fraterno Lucio, Fozio, la luce !


POSTILLA DI PRIMAVERA (Viarte 1994)

Soli, nel fare mondi, soli .
Forse come Dio di cui immagine . Forse solo zingari sradicati senzapatria né cultura .
A far mondi, andare . E morire .
Poesie solo anche come affetto per chi se lo merita tutto .
E l’Abate, che gli déi e gli omini lo salutino, che la natura lo
grazii e la cultura lo sostenga, merita, oltre il rispetto mio di allievo devoto, affetto . Amore .
E bona là !


Raff BB Lazz
10 Marzo 1994

Mazurkina Pirata

Pesca fiore di pesco
alto più in alto
no
non ci casco !

Poeta albatro poeta leggi nero/BN artista *
(crea nuovi segnali!)

MAZURKINA PIRATA (1993)


Ruota ruota la coda Pavone di fame,
la terra è mia, l’ho liberata,
passo la mano al sogno
al gesto aperto che svela psicodrammi sì
sì sì sì sì sì sì sì
batto il piede e suono e v’incanto d’incantamento furioso
sono il gesto pauroso ch’orrorifica gli astanti
sono il mago, il gatto grasso in guanti bianchi,
sono la spada rinfoderata, la fantasia lasciata su cauzione,
sono la mia vendetta e il canto
sono la nava

pensa Rimbaud che scrive sul terminale 999
pensa la Spagna £& che vince libertaria e la
prima<vera sotterrata
l’infame gioco delle lame di rasoio
pensa il nodo scorsoio d’Andreotti
pensa i guerrieri inermi, i polli spennati alterni,
pensa la pancia del poeta
gettata alle stelle come una focaccia
avvelenata

Pensa l’Amata del filo dell’Acqua che mi trova
mentre piango sotto un’aiola di cemanto
mentre dò cimento
– come smpre –
al niente
pensa la Preziosa qui, presente del dolore e del sorriso
pensa il suo viso che mi conferma un pirla
uccello di paese in mondo tondo guazzo scortese
fatica di prima mattina
fatica di gran fatica di

pensa il succo della fica di Jasmine che cola sul mio naso
figlio della Amattina

figlio di Donnadolce
o
della Vitae di CollinaE
o figlio del Bon domani
o figlio del figlio del Telegrafista
o ancora altro che

non importa al cielo nè al pensiero di Diamante
editrice di poesia per gli amici del “poker” dei “partouze”
nè cale al cazzo di Bramante il cuoco
uono da salario
gente da poco
proletario …

Canto la notte aperta
canto la mia mattina
canto il canto che è altrove,
alto,
in Malesia,
in <Bosnia,
in Cina …

Vomito nel lavanedino
faccio fatica elefante
son poco
vivandiere sul vascello libero
pirata
sono a nostra disposizione
bello
la nottata è nostra
escimi l’uccello
succhia
dammi la vita …

Alba
cemento
morte a matita

la vita ?

che so,
lasciate alla brezza dei vialoni
la risposta

la mia
l’altrui
la vostra

e che dare che mai
stappa e bara alle carte
è già domani … ? *******


HABABNOIRRaffRaffpoesia aperta 04/12/93

Quil fiur de s’ciouco

Bel cumo al s’ciouco
al dei iò scuminsià
zeindo par le soie
El ingrumarò cu le meie fantazeie
oun altro ciapo de rispeiri

Curighe dreio saravo cumo finei
dreio de l’oulteima mazera
Catase dananti al mar
grando feinta a lonzi
e no ciapà al dei
ma quil ch’a zi restà d’al corpo
de l’oulteima lagrema
Soun quil feil
vula ch’a rento de la fein
salouda le meie sparanse
zi spuntà serio quil fiur de s’ciouco

A no zi oun altro sul
e gnanca pulvaro de stile
Ouna man frisca e lizereina
a carisa inseina morbein cumo instupideida
quil bavizein de veita e malincuneia


Loredana Bogliun
Puisie gjavade fûr de racuelte Mazere, ven a stâi i mûrs di piere istrians, editade par talian e par crauat tal 1993. Il lengaç doprât al è l’istriot, te sô variant di Dignan d’Istrie. L. Bogliun e je nassude a Pole tal 1955.


Quel fior di papavero – Bello come il papavero/ il giorno è incominciato/ andando per le sue/ Raccoglierà con le mie fantasie/ un altro po’ di respiri// Corrergli dietro sarebbe come finire/ dietro all’ultimo muricciolo di campagna/ Trovarsi dinanzi il mare/ grande fino a lontano/ e non afferrare il giorno/ ma quanto è rimasto del corpo/ dell’ultima lacrima/ Su quel filo/ dove vicino alla fine/ salutano le mie speranze/ è spuntato serio quel fiore di papavero// Non è un altro sole/ e neanche polvere di stelle/ Una mano fresca e leggerina/ accarezza senza brama come istupidita/ quella bavetta di vita e malinconia

Poesia tratta dalla raccolta Mazere (Muri a secco), del 1993. È  scritta nella variante dignanese (Dignano d’Istria) della parlata istriota, in via di estinzione.
È nata a Pola nel 1955.

All’attenzione di Radiopopolare

All’attenzione dei redattori di RP
Milano, 8 Novembre 1993


Sono un “vostro” (!?) azionista ed ex ascoltatore ( mi sono di recente trasferito a Bologna …) .
Passando il fine settimana a Milano ho avuto una spiacevole sorpresa accendendo la radio : al posto de “La sacca del diavolo”,
la mia amatissima trasmissione della Domenica sera avete
programmato quell’orrido sproloquio paraleghista di “Bar Sport”,
per di più imperniato sulla trasmissione di una partita della
televisione via cavo berlusconiana …

Ora, non vorrei passare per un calvinista, il calcio è uno sport
che amo e qualche volta vado pure allo stadio .
Ma credo che di calcio e di “cazzi” ne abbiamo già a volontà ed in particolare la Domenica sera .
Oramai di Gialappe et similia ve n’è un esercito e non mi sembra
di nessun utilità nè culturalmente molto interessante che Radiopop
ne offra un’altra spostando in seconda serata la programmazione di una trasmissione di alto livello .
Probabilmente se l’imbarbarimento e l’impazzimento culturale che stiamo vivendo è giunto a portare gli uomini di quel pericoloso cretino di Bossi al potere in questa città è anche perchè alcuni linguaggi, codici, modelli comunicativi si sono omologati ed appiattiti su tratti culturali che ben conosciamo : le pedagogie della “curva”, della discoteca e della formula uno …
Personalmente credo che la differenza fra il teatro di Bossi in quel di Curno o Pontida e i “cazzi” televisivi di un Paolo Rossi
o di una Gialappa o d’un “Bar Sport” sia sempre minore, il margine di alterità più sottile, lo spazio dove poter lavorare su dinamiche diverse sempre più limitato .
Non capire questo e pensare di poter contrastare la cultura leghista ( che sappiamo bene essere una degenerazione di quella dei “ladri” anni ottanta che “avevano i coglioni” ) a colpi di
“Smemoranda” e Rock& Roll è un grande errore, e purtroppo gli errori si pagano ( e noi già ne stiamo pagando tanti …!).

Vi faccio avere la mia personale amarezza che mi permetterà di lasciare questa città che per trent’anni è stata la mia con un
motivo in meno per dolermene .

saluti
Raffaele Lazzara

Istruzioni per l’Ouzo

Napoleone .
L’imperatore si alzò in un mattino di Francia per impartire ai contadini della Carinzia e del Basso Norico la guerra; questi ne furono talmente felici che gli dedicarono una canzoncina che ci è giunta, di bocca in bocca, seguendo il fiume del dolore, dell’odio e delle sofferenze più immonde che da sempre i conflitti dei potenti riversano sulle masse dei pezzenti d’ogni angolo della terra .
Per questo, “benedicitur Tommasi”, i ragazzi dalle grosse dita e dalle labbra secche che nello studio di Alfredo il Grande fumavano spinellini e inventavano filastrocche indiane proposero gli Orazi e i Curazi ai generali dell’Esercito Italiano impegnato in Africa .
Tutto questo alcune lune fa, lune storte e cuori gonfi di parole , quando la sincerità delle luci alla sera era d’altra figura, quando i banchieri mettevano via senza farsi notare e le piazze, le piazze pazze erano piene di gente perbene dall’aspetto caldo, le pazze piazze percorse da ragazzi di pelo di pietra e di sandalo, di seta e tamarindo e incenso buono, e cuoio e lana ed altro manufatto artigianale andino e riso e sorriso e non ancora piumino paninaro o barbetta gentilizio-hip-hop-oppio ma barricata vera di idea prima che frontiera figurativa, di fantasia al potere prima che di potere alla noia della follia …
Questo dunque il tempo, l’età, il colore ed alcuni dei materiali usati per fare, se non la rivoluzione, almeno qualcosa che la presagisse, le assomigliasse e potesse essere propedeutica ad essa, anche per abituare i papisti, gli sbirri e i padroni che c’erano
ancora pochi mesi per loro e per l’oro ; fascisti, borghesi: ancora pochi mesi …

– Non ci siamo arresi ! – esclamò un secolo dopo il cantaballe di turno mentre animava la serata di un Centro Sociale .

Intanto, e proprio per non arrendersi all’Evidenza come fanno i più ( quelli che fanno ma non sono ancora, gli altri non saranno presi in considerazione in questo contesto ), comincio a raccontare, poichè ven’è bisogno, la poesia del mio sogno cheto .

Non si può raccontare la poesia, dirà qualcuno .
Non si deve – asserirà qualcun’altro .

Intanto la sera è divenuta notte e la notte già mattina, la camicia slacciata, le maniche rimboccate, una sigaretta accesa con la sua piccola nuvola azzurrina che lo circonda va l’amico a chiudere le finestre mentre la luce della strada gli rimanda il gioco di ciglia dei fili tramviari al vento .

Mattina forse di Domenica, comunque fesitiva, silente . Freddo pungente, punta di pistola

La luce al neon che illumina il marciapiede di rosa la dice lunga : la vita è bella quanto artificiale qui in città : Non basterà il piano prefissato per la rapina alla banca; non funzionerà punto .
L’amico soffia sulle tende di pizzo bianche, cotoncino o finta seta al poliestatymicineide, si passa una mano fra i capelli. si stende in poltrona e si addormenta così, mentre passano i primi tram .
Dormirà ore, forse giorni .

La ragazza che studia musica barocca all’Università di Bologna arriva a Milano con il treno delle quindici e ventuno . In Emilia pioveva forte, una pioggia accanita di Marzo, d’Aprile, ma anche di Settembre, d’autunno di torbiera padana dura, chitarra elettrica e batteria, impermeabile crema bagnato fino alle ginocchia e sulle spalle, spalle tese da un po’ di preoccupazione, forse un po’ di reumatismo, un torcicollo grigio d’acquazzone vitale di San Vitale di primavera incipiente di orinale rotto di grondaia spezzata arrugginita cascata malattia di mattina oltre il vetro dell’autobus condensa di fiato leggero di roggia di pozzanghera di loggia e cuore celeste-celestino, ombrello turchino e tergicristalli in fila a Porta Saragozza e bambine dalle lunghe calzamaglie di lana fradicia, bambine dai capelli mogano con la punta delle scarpine umide come un’ombra sul cuoio e gli occhi annacquati a Piazza verdi sotto i portici e poi di corsa fino a metà della strada e poi indietro e poi di nuovo di corsa verso l’aria fredda e il bar pieno di ombrelli appesi agli avambracci caffè cappuccio una borrella segatura tic tac ore otto e venti .
Ma quando la locomotiva fischia entrando in Lambrate già il sole
ricorda ch’è Marzo, ch’è jazz e ch’è blues .

A Milano sarà un sole che apre le fioriere delle portinerie nei cortili del centro e i bar e le ragazze si spogliano e i terrazzi pensili lungo le circonvallazioni si ostinano a sporgere per i pedoni che aspettano in strada qualcuno e hanno il tempo d’inseguire le nuvole le ragazze le briciole di pane oltre le panchine che si riempono di panchinari ragazzini plastificati algerini neniosi e gagliardi bastardi disgraziati e barboni e vecchine e signorine con bambini e bambine e carrozzine e sacchetti gonfi, sportine della spesa, il pusher della fontanella fischia alla bonazza che legge Spinoza e ch’ha l’esame il dodici alle nove in aula tre a Pavia, ed io sono un poeta o piangerei, sto già piangendo, mamma guardami le mani che mani sudate che lacrime dure che ho fra le dita , la vita .
Domani .
– Non ho nulla da perdere – pensa il fattorino della rosticceria all’angolo durante l’ora di pausa e va in banca a prendere un due trecento carte dato che un affitto non arriva a pagarselo e Vittoria non lo vuole sposare tanto vale spendere tutto e subito e va al bar e ordina due panini prosciutto e formaggio con sottaceti e una birra ghiacciata e si siede al tavolino e mangia e beve e guarda le impiegate degli studi notarili che indossano i loro completini da rivista specializzata e va in bagno e si masturba e

viene subito e aspetta che s’ammosci e piscia e si lava le mani ed esce ed è ancora più infelice e la luce lo ferisce e intanto monta e cresce la piaga del suo cuore fra le rughe su nel viso .
Non è morbida la luce per nessuno nel cortile . Scrive un gesto della mano il professore è una fogna una fontana la città che ci è sovrana, sale il sole meridiano .

Scende e termina il biancore fra le sbarre alla finestra: si preparano i cocktails per l’aperitivo mentre ancora gli ultimi geometri finiscono le discussioni e i toast e un vecchietto entra nel “Robinson’s Pub” di Nicola e chiede un calice di rosso che – gli vien detto- non c’è, non c’è più da qualche anno, ma ci sarà, dico io, ci sarà nuovamente dopo la fame, porcodio, ci sarà .

Una madre di famiglia si lascia indietro il borseggio d’una amica,
passa con il passeggino tricolore fra due artigiani che compongono fioriere incredibilmente belle, sfiora le vetrine oscurate di un mansturbatorio di gruppo per anziani, uno di quei campi di concentramento per la terza età bisognosa di carezze e froci liberaldemocratici, oltrepassa un ponte oltre il muro di cinta del castello e scompare nel budello del metrò amore amami ma non lasciarmi mai, toccami le gote piano con le dita, scrivimi di te
scrivimi a matita, cancella, riscrivi …

Il poeta se ne sta sulla terrazza in piena luce e legge o forse dorme .

Esco e vado a fare una passeggiata nel rumore che il cielo azzurro assorbe e il sole, compro le sigarette, compro il giornale l’ora e l’anno e forse il secolo . Conduco un’esistenza malferma e forte, sono l’equazione insicura, il limite della sera e dell’alba, sono il vuoto del bicchiere che reclama, il buco del cesso che non restituisce mai, la finestrella che cela il mondo tondo, l’apparenza che precede l’entità sovrana, la potenza ch’è dell’atto ancella bella, sono il pettine senza denti, la nottola in volo, la guancia rossa della sorellina contro il muro della scuola, sono la pistola che esce di tasca un secondo prima del sacco d’una banca, sono il filo che non si è ancora spezzato, sono la lingua in bocca della bocchinara, sono la bara ancora aperta, la fiamma dell’accendino Bic sull’isola deserta, sono la coperta di flanella nel letto di cartone del profugo slavo, sono la pelle dell’acino d’uva, la montagna di parole che non dirò mai a chi non ascolta che il buio o la luce, sono l’ancia che vibra oltre il tono e il semitono, sono il sogno d’un pinelli in volo, sono il vento che non è cielo ma non suolo, sono al verde, un’eternità a cercare un progetto ben strutturato per vivere alla giornata, un pensiero che si elevi al non-pensiero, una spiegazione che metta l’anima in pace e lasci il resto del tempo alla meditazione, all’estasi, al cantare del più oltraggioso canto …
Ed è tramonto, ma tramonto tramonto tramortito m’invito a bere il famoso aperitivo : ci sono Gallo, Vischio, Popolov sergente boemo a capo d’una setta di pinocchi integralisti, Lenin che porta sulla giacca il simbolo eterno della rivoluzione, la spillina con il volto di Giorgio Mascitelli, l’Abate Fozio, Gesummaria, Giona, la Balena e Giuda Isoscele, il furfantello leghista .

Più tardi è sera .
L’aria calda della primavera esplosa porta l’eco lontana delle sirene di polizia e carabinieri . Arrestano alcuni sovversivi, ladri, ruffiani e prostitute, anarchici, democristiani .
Tuona .
Inizia a piovere .

Quando esco, pochi minuti più tardi, le strade sono oramai lucide d’acqua e piene di pozzanghere ; piove talmente forte che l’ombrello non mi ripara, sono costretto a seguire i muri .
All’incrocio i semafori lampeggiano . Una volante della polizia è ferma sotto l’uragano : le luci roteano lampeggiando sull’asfalto, le portiere sono aperte, i poliziotti si muovono come ombre di nebbia; stan perquisendo due ragazzi . Li conosco, sono Trillo e Pistillo, due militanti comunisti . Li troveranno due ore più tardi morti in un fosso, con le manette alla schiena e un foro d’arma da fuoco alla nuca, poveri figlioli .

Allungo il passo, il bar del biliardo mi aspetta, ho puntato cento carte su me stesso e non intendo fare aspettare i perdenti .

Fumo la mia sigaretta e sputo catrame e catarro, scorre la stecca fra le dita ingessate, scivolano le biglie e toccano piano, dolcemente sul panno, secche, tac, verde panno tiepidamente riscaldato, madre di tutte le battaglie, sponda su sponda ed occhiata al naso di Vischio che si arriccia piano, alla tesa del mio cappello che si abbassa a prendere la mira, alle dita che cercano di dare la fantasia alla fisica dei solidi, l’azzardo del bel gesto e della predestinazione, del salto scaramantico che possa aprirci orizzonti imprevisti – o tanto furiosamente desiderati ! – che siano la geometria dei sensi e non quella oscena e povera su cui si regge l’Universo e si calcolano gli angoli di incidenza, le dita cercano il sogno che porti la possibilità rosavestita di una vittoria giocata con lo spirito e non con quella abilità ch’è abitudine e noia, alcoolismo, quella abitudine da conseguire con lo studio e la scelta dei materiali e delle metodiche, delle banalità economiche e feudali, della nostra figuretta stenta di mortali …
Cerchiamo il tiro che dimostri l’apparire del dono magico, dell’etica applicata al piacere, cerchiamo i due punti fatti per sbaglio e l’errore nel polso avversario, l’errore che ci faccia vincere da bere o solo da poter dire : … l’Errore !

Fuori piove, la saracinesca è abbassata, la luce rosacea del caffè impone a tutto il viale alberato colori anormali, impasticcati,
chetamente frastornati , gli ippocastani incatenati sospirano il fritto e la luce dei neon gonfi da far paura ai lumini dei tram che scivolano via disperati oltre la linea notte lingerie camiceria uomo ferramenta ricambi auto prevendita biglietti
persiane morte come denti spezzati fra le case in sonno lieve,
fischia un treno alla stazione parte ritorna qualcuno che non sappiamo il nome ma è lui di sicuro .

E infatti ecco che nel bar si apre la porta ed entrano un gruppo di vagabondi immondi pieni di sacche e tasche e cappelli di pelo e si comincia a ordinare caffè e birra caffè e birra ancora uno ?
Grazie si .
Mi metto la giacca, il cappello in testa, pago di corsa ed esco,
sotto la pioggia veloci, si va, Vischio mi segue rificcandosi in tasca la collezione di preservativi africani che ha perduto a terra incidentalmente mentre pagava il conto, sporcando tutto di segatura bagnata .
Muoversi, diobòn, sarà l’una l’una e mezza, ci aspettano ?
Non si sa .

Non ci aspettano . Da questo punto di vista allora, sapendolo è ovvio, sarebbe stato meglio restare a bere un caffè ancora, od una birra .
Dunque ha smesso di piovere .
Io torno a casa e me ne sto a leggere sdraiato sul letto, leggere e rileggere e fumare .
Suona il pianoforte, la batteria .
Ha smesso di piovere, per ora, per oggi, per stanotte .

Giornata bella, giornata di sole .
Papà esce di galera, rintronato . Si apre la porta, il cielo è uno specchio di luce . Ma fuori non c’è una automobile comprata per pochi dollari e il fratellino con gli occhiali da sole . Fuori c’è
la grande città silenziosa . Papà esce di galera, rintronato : i suoi bambini sono tutti morti ed è morta anche la mamma ; gli zii, si sa, sono in collina a scrivere saggi d’estetica cluniacense, chierici pieni di boria .
Non che sian morte le idee, ma forse è la gran noia, mascherata da questo e quello, che fa in modo non si possano più prendere in esame : quale immaginario di massa !? La filosofia e la politica non l’han fatta mai le masse, e pace a Zio Bertoldo !
Comunque papà esce di galera, rintronato, e il cielo e un vaso di oro zecchino rovesciato a cono su questa città malata .

Frutti di caramello per una sete pazzesca : i ragazzi che lavorano al centro sociale terza età sono al quarto livello ed al secondo impiego . Alcuni si leccano le ferite vicendevolmente . Comunque è una pausa di pranzo-o-zona sciopero e si dannano a giocare la palla nel pratone dei giardini .
Scarto la palla a destra, palla troppo piccola per i miei piedi audaci, corro giù a perdifiato ma tanto c’è Gallo ch’è un cannone e lascio perdere senza neppure farmi contrastare e il gioco riprende con un lancio in un altro settore, quello in cui stanno abbracciati due studenti del ginnasio, e via, colpo di punta dato male e Papa Giovanni è a terra – rigore – no che non lo è e via via passa la palla troppo grande per i miei piedi imbranati ma corro lo stesso giù per il prato impazzito verde margherite margheritine e fiorellini rosa rosati blu oltremare e turchino e pratone di odore di narciso giallo di violaciocca e sopra il cielo e lontane le case, tutte le case d’arancia e specchiera,i tetti di verderame Parigi-Ginevra- Dakar- Mongardino, i tetti di camini in festa di roba ad asciugare e giardini pensili come in Babilonia Mater, piccioni nucleari in volo sopra i fili del filobus sopra le persiane aperte dalle massaie incerte che sbattono tappeti a tutte l’ore sopra le cantine inquiete dei tintòri sopra i covi dei terroristi armeni sopra gli appartamenti periferici dei poeti inconsapevoli sopra le macellerie ed i mattatoi e i divertifici ancora chiusi .

Disteso nell’erba a respirare la luce, il bandito . Teneva un libro in mano, chiuso, ma con un dito infilato fra le pagine a ritrovare il filo perduto nello smarrimento dell’aria primaverile, aria bella di Marzo od Aprile, sonnecchiare di cappello calcato e poche altre cose se non la tiepida indolenza che lo lasciava lì imbucato in un cantone del nulla – o del tutto – .
Le bambine passavano rincorrendosi, una cadde e si sbucciò i polsi ma si rialzò senza dire nulla, mordendosi solo un poco il labbro per non lamentarsi . I cani si azzuffavano e i loro portatori – i ferofori di fiera – si rimbecillivano fra lor lanciandosi battute
– Non fa niente bella bestia un bravo cane – . I ragazzi del centro sociale per la terza e quarta età della seconda era del primo mondo erano oramai sette a sei e dai, passala a Zio Fiele, diocane, tira ! Il chiacchierone ammutoliva, la bellezza d’ebano toccava il cielo con un dito, il guardone chiuse gli occhi e si assopì sincero .
Passa il poeta, scende e trascende il vialetto, inciampa in un cane lunghissimo, gesticola e sorride verso i panchinari nazisti che si apprestano a dar fuoco al centro per la terza età quarta di seno, entra nello spaccio dei fognini . Karlo Marx sta proponendo a Charlie Chaplin una partita a scacchi . Il vate ordina il solito, una spuma rossa in boccale con ghiaccio e limone di Sicilia, e resta sospeso a guardare il proletariato che gioca a carte e a morra, a scacchi a backgammon e a “dentro e fuori”, espressione quest’ultima semioticamente complessa del travaglio sindacale .
Karlo Marx invita il vate a sedersi con gli altri. Fuori un camion s’incaglia nel portale e un operaio assassina il suo collega di turno per poter concludere una discussione calcistica avendo ragione assuluta, di rigore – Non c’era! Non c’era ! Ti dico che non c’era ! – il sole ricorda alle vetrate il fango invernale,
le mosche estive di fortunale e tant’altro forse di frasca autunnale in volo piovoso e gingerino versato e cortile ombroso .

Passano le gazzelle nel deserto dei nostri animi consumatori : hanno arrestato altri sovversivi, democristiani, donnoni brasiliani, venezuelani, portoricani .
Ha ha ha ride lo scheletro del mio armadio, incombe sul letto matrimoniale purpureo e, con un rumore secco, terribile, si schianta su di me soffocandomi . Male ho fatto a non morir in battaglia o sui campi da gioco o nelle pieghe dell’amore o nell’estasi dell’odio, nelle pretese estetiche della vendetta !
Morire nel mio letto, si, me la son voluta ; e poi, di Marzo !

– Saluta la mamma ! – e il fantolino se ne strafrega e corre via con gli altri su e giù per il prato . Se ne strafotte anche la zia in maniche di camicia azzurra, del resto e conversa con la vicina panchinara del taglio e del cucito dell’ordito orrore orrore che l’insegnarono le suore nella sua età migliore ma poi, poi ci si rifà e trac e trac fuori piccini come vuole il santo padre e poi la natura comunque, o no ?
Il bandito si alza dal suo prato, sfinito . Apre il libro al segno, guarda con gli occhi protetti dal cappello i ragazzi della terza età che ci danno dentro e son già dieci a sette con ribaltamento di fronte e passaggio calibrato e se ne va schivando
una bestia lunghissima e mostruosa che gli sguscia fra le gambe .

Sette di sera e tagli di luce obliqua . Nera è la strada e Mephisto che se ne torna dal suo noto girone, giù dal vialone di periferia terribile con i figli della bomba e del cartoncino .
Li, attorno ai minareti della grande barbarie l’impiccato senzaforca ascolta i racconti dei rifugiati: fragoline tenere sotto il temporale, cantatori di fiabe piccole e disperate, musici di metallo rumore rivolta e tafferuglio, spacciatori di polverine pasticchine confetti caramelle patatine gomma plastica antracite alluminio quarzo carbonio handicap girotondo linea di fuga senza avvertimento nè presentire alcuno .
Domanda terribile, senza risposta, alta come la vita e causa di afflizione quella che si pone il buon Mephisto, demone della bellezza : sarebbe stato meglio esser nati nella nostra valle, sul nostro monte, lungo la nostra costa o nella foresta e poter giocare di scarto il nostro ruolo o è meglio questa fuga dal niente, questa obbligata devastazione estetica questo vagare, il nomadismo dei poeti liberati da niente, dei pirati imbarcati nel saccheggio di una cultura già depredata, dei veggenti di un qualcosa che non si sa dire o forse non importa a nessuno che si dica, men che meno alla tribù rapita del nostro cuore buono …?
E’ preferibile la mia, la nostra condizione d’artisti, d’esteti in lotta esplosa lungo le fila della luce e del vuoto involontario o quella d’altri che scelsero l’eremitaggio e la vastità dei loro orizzonti – non li subirono ! – o anche solo lo spostamento d’un grado dal loro destino sociale, quello che dalla formulazione alterata d’una preghiera porta allo scetticismo e all’eresia e da lì all’ateismo o alla storia …
La domanda si perde nella complessità dei segni che manda il crepuscolo sulla strada nera d’asfalto e torna a casa Mephisto,
tornano a casa i suoi pensieri come uccelli in volo ad Oriente, il velo misterioso dell’infanzia e del dolore che lo vollero come me, come te, disertore infelice e furibondo e non alpino cheto, alpino che va sull’alpe e fa il formaggio o la guerra o la resistenza armata antifascista o la balla trista e la cantada e ha la morale da portare sempre in se sotto il cielo stellato anche d’altri mondi, d’Argentina o di Milano, e la fiaschetta e un “mandi mandi”
ed altro ancora che lo salva e salva anche noi, la nostra storia segreta, non svelabile, lontana e cara che serbiamo qui, nell’angolo migliore del cuore gonfio e avvelenato …

Porta il bicchiere alle labbra intanto il tipo lì sul bancone del bar americano fra un cocktail abbandonato e un salatino viola .

Sospinto come dal vento sopra la balaustra il capitano pirata si chiude l’imparmeabile giallo con la fibbia e sospira profondamente
mentre sale la marea sulla città, l’aria diviene spessa, montano le nuvole e il sole annega oltre lo specifico del poco che si può guardare : abituati alle nebbie e ai muri i corsari padani han sviluppato la fantasia e l’immaginazione . Forse non sanno più vedere altra realtà che la loro marcia follia di ruhm e tartine,
di saccheggio e arrembaggio e sarcastico viaggio sopra treni
sotterrati, catacombe materne per i vivi, giostre coloratissime di banche splendide come caravelle al largo delle Azzorre, come galeoni spagnoli pieni d’oro, tesori, pappagallini e indios alla catena alla fonda alle Canarie, come vecchi camioncini combattenti in quel di Cuba ove mostra l’anca bronzea la negretta comunista e l’idea stessa dell’economia inventata si svela terra ed onda, sargasso scintillante di mercante salgariano che si batte e ribatte e totalizza cento punti, appende il generalissimo a Piazzale Loreto e ricomincia un’altra mano .
Il capitano pirata getta la cicca accesa fra le onde del Naviglio Grande, laddove è il filo dell’acque .
E, incerto fra il riso e il pianto, fa un gran ritto .

Ma io sono altrove !
Altrove, altrimenti, in altro luogo, alteramente, liminarmente, in altro modo, in altra maniera, non così, non qui, distante, fuori, oltre, per strade diverse, per vie traverse, da un’altra parte, via, lontano, lontanissimo …
Mi son perduto a tre anni nella brughiera di Proserpina e me ne son stato con lei ad imparar le vie della sincerità e dell’eloquenza . Basta . Punto . Tornato nel deserto sono stato costretto alla resa . Ma non per sempre . Mi hanno rubato l’eloquenza ma non la sincerità, la gioia ma non il segreto e quindi chiudiamola qui, non fatemi dire di più, potrei arrabbiarmi, anche se lo san bene i tigrotti, Mama Beha, Zio Anselmo d’Avasinis e gli operai dell’acquedotto che non lo farei .
Nevica sopra le tastiere dei computer, sopra i monitor, sui visori televisivi, sui tasti del topolino ad alta tecnologia, nevica nel mio cuore artritico, come disse la poesia classica .
Neve e luce a primavera sotto la stazione, al centro dicono e dan le carte, un due tre .
A furia di scegliere mi trovo per caso in balia degli eventi, si, ma non facciamo finta di niente : l’ingenuità non c’entra .
“Gli uomini scelsero le tenebre piuttosto che la luce” dissero quei due bei tipi, e avevano ragione . Sincerità, senso ai sensi,
solidarietà, consapevolezze … non è vuota morale, ma la condotta esiziale per esistere meglio … quali leggi ! che Stato ! un po’ di buon senso e una maggior apertura all esperienza, al conoscere,
sarebbero anche d’avanzo !
No, no, non fatemi continuare …!

La musica si apre, si aprono le finestre e il sole fa capolino fra le nuvole : è quasi mezzanotte e c’è la luna piena: rotonda e
divertita illumina e sorride splendendo sul cammino del poveraccio che va da solo per la sua strada e forse sta fischiettando e forse non si è mai sentito così bene che non ha catene se non quel poco che ancora lo tiene a terra e non lo fa volare, partire come un moschettiere guascone per la nostra sorellina a fare un giro,
un girotondo là in cima come una danza latina come musica strana e felina, musica aliena, non umana, canzone serena d’uomo che in pena fu ma sarà libero e liberatore, libertario .

Il bandito entra nel bar ed ordina una tequila con fettina di limone normanno . Dal viale alberato, sotto il fortunale, giunge il capitano pirata che domanda una granita ed un caffè corretto rhum .
Il poeta arriva con Gallo e Vischio, comandano birra e gingerino, spuma rossa . Lenin è là – colà – e sorseggia un acquamenta .
L’impianto filodiffusione manda sordide note di chitarra stranita in quell’aria viziata ch’è poi la vita .
Piove .

Si apre la porta, il vento penetra gelido nella sala fin’oltre il banco, qualcuno si volta imprecando .
Poi, come se uno schiaffo avesse fermato il moto ondoso del tempo, tutti restano immobili, ammutoliti .
– Comandante! – esclama il barman toccandoGli un lembo della giacca di cuoio con una mano .
La puttana bionda seduta al tavolino di fianco alla cassa scoppia in lacrime nascondendosi la faccia fra le mani .
Lenin scatta sull’attenti, quindi va a prendere una tazzina, la posa sotto la macchina del caffè e ne prepara uno, versa mezzo cucchiaino di zucchero di canna e lo mescola ; Vischio solleva la chicchera e la porge al nuovo entrato .
Questi beve il caffè in un sorso, sorride e benedice .
Poi alza guantata la mano ad indicare la via : il bandito e il capitano pirata, il poeta, Gallo, Vischio, Lenin, il barman e la puttana bionda Lo seguono .
Moscardino il lustrascarpe accende le luci dei tavoli da biliardo,
si montano le stecche, si ingessano i puntali, si azzerano i punteggi .
Hasta siempre, Comandante !

Le automobili passano come motoscafi giù lungo i vialoni periferici : piove, pomeriggio di Sabato lungo il silenzio dei boulevards di Marzo .
Fischia la teiera sul fuoco . In cucina, la sento, si muove, la mia avventura strana d’amore, cerca fra le tazze due simili, i piattini, lo zucchero e i grissini …
La mia bella ventura di carne chiara e occhi felici, il mio corpicino cuoricino di bimba sottile di capelli a festa di sorriso bianco di labbra di luce di seni di madre tersa di seni caldi di seni coni di splendore volitivo, di mani come uccellini al giardinetto, di lunghe mani carezze infinite sulla mia pelle vecchio straccio, sulla mia carne corrotta e gonfia, sulle mie guance stanchissime e tremanti, di mani dolci da tenere e respirare e basta e poi basta …
Io sto nel letto e non penso ma assorbo ciò che mi circonda o presagisce un’ esistenza o una sua fantasia : il cassettone scuro, la specchiera al muro, il cielo duro e di pioggia là, alto fuori dalla finestra aperta sulla città deserta, la casa che continua oltre la porta, la voce distorta di Serena che canticchia, la luna di cartone attaccata alla porta del bagno, la coperta gialla a terra, sul pavimento di legno …

Bevo il mio tè e le accarezzo il viso . Sorrido . Mi sorrido .
Ah, la vita dei narratori è questa, lo ammetto : giocare a biliardo col Comandante per diletto, amar le signorine più dolci ed aggraziate, far dell’estate inverno e in inverno l’estate, sfidare a duello i mascalzoni e i preti, alzar la penna contro il
tiranni che emanano decreti, andar per funghi in compagnia dei moschettieri, vogare sui Navigli comandando velieri, dire a questi ed a quelli di starsene accorti, scender nell’inferni e parlar coi morti, andare avanti o indietro, risalir la china e ricordar ciò che si deve a questa assassina di Babilonia nera, di Sistema farabutto, prendo il capitalismo – sai dove lo butto? – ; lo butto con lo stato nella fogna della storia perchè la mia è poesia
ma ha rispetto e memoria .

Da alcuni giorni sono chiuso in casa . Scrivo un poco, leggo ciò che mi capita, dormicchio . Siedo con le spalle al muro, nell’angolo del salotto . Ho paura . Gli alieni, i mostruosi extraterrestri che vogliono conquistare la terra con l’orrore sono tornati, lo sento .
Mi appariranno altissimi e magrissimi, bianchi, fosforescenti e mostruosi, malefici . Io non sopporterò il terrore e morirò .

Piove .
Le ragazze con i capelli colorati, gli orecchini, gli anellini ovunque, le giacche di cuoio strappate e macchiate di vernice color crema viola neon, le ragazze fumano sedute sul gradino e si passano una bottiglia di birra .
Ribelli di sedici anni consumano, declamano il messaggio che sarà ben cultura popolare ma non vedo l’altrove che ho sognato un tempo nè quello che vivo ora .
Non pensate che pianga, no, basta questa pioggia che mi bagna ed anch’io la mia cicca e la bottiglia di bumba babbà, sono solo stanco e chiacchiero con i vecchi trasvolatori olandasi e ce ne diciamo, anzi ce na cantiamo.
Oltreconfine, oltreoceano la signorina d’Argentina prende la sua borsetta, la sacca, e porta lontano i propri occhi, il volto bellissimo ed altero, i lunghi capelli scuri, latini, gli zigomi cheti e meticci, la storia liquorosa del bisnonno piemontese trasvolato altrove ; come il bisnonno del Marchese Maremmano, il Capo buttero che venne sfidato da Buffalo Bill e lo vinse a cavallo dei suoi bufali neri d’elegia etrusca, furente .
Racconti dei marinai d’Amsterdam si sconvolgono in fiabe affricane, i rastauomini della stella rossogialloverde che fanno altro – dice lungo i portici il Grande Sciamano Scienziato – altro da loro, ribelli dalle braccia abbronzate, ex contrabbandieri che hanno la dolcezza del cuore nella voce e nelle loro liriche vivissime, vissute .
Disertori, vagabondi, mezziuomini e mezzedonne, madonne nascoste od esposte al pellegrino che macina la polvere bagnata sotto i piedi .
Torno a casa, a casa .
Ma dove ? Jo o no soi .


La verità è questa : sto andando all’assalto .
Sogni in liberazione .
Distinzione di voli pindarici .

Serena si è addormentata al mio fianco: la luce pomeridiana entra dalle persiane socchiuse ed io me ne sto così, libero, con gli occhi che guardano, o meglio, vedono il soffitto . Il giradischi lontano manda una musica caldissima come il fiume de oro, un turbine di trombe accese in questa giornata autunnale di Aprile .
Bacio la mia festa di nuove possibilità, la mia donnina dinamica
che pesca dalle sue tasche fantasie e giochi di vento e vastità ad ogni istante, la bacio sulla schiena bellissima e salto fuori dal letto azzurro, mi scaravento in bagno, sotto la doccia e canto quella canzoncina che sappiamo tutti quanti nella tribù .
Mi vesto ed esco, vado a comprar pane e fagioli, sigarette e giornali e un regalino per Serena, una mano di ladro mozzata e mummificata allo spaccio della Sacra Moschea Riformata dell’imam
Alì Ibn Babà .

Le ragazze del collegio femminile Santa Diamante Pillitteri giocano nel giardino prospicente l’Abbazia di Sant’Onofrio Papa
si lanciano i cerchietti, il volano, la pallaprigioniera .
Nelle loro vestine blu scuro, con le loro camiciole bianche di pizzo, con le loro calzine chiare su quelle gambine dalla carne tenera si rincorrono per i prati e le aiole allegre e dispettose .
Mama Beha, la lesbica grassissima che abita sulla panchina del
viale, a quella vista non può trattenersi e tranquillamente ma
in modo efficace si infila una mano nella gonna sbottonata e, infilate due dita grosse e gonfie su per la vagina si inizia a masturbare lentamente .
Una tutrice del collegio forse se ne avvede, forse lo sa da sempre e le piace che qualcuno apprezzi quei modellini maliziosi che lei stessa disegnò in gioventù per la nuova divisa delle ragazze, e che provò sulle allieve pezzo per pezzo, affannandosi un poco sì, con quelle calzine bianche o color celestino su quelle gambine color di pesca, con quei pizzetti old fashion su quelle castigatissime scollature – le castigava lei di persona ! – di colli di passerottino di pelle bambina profumata … !
Non giocava anche lei, d’altronde, con le sue piccole a “Dai e dai”, a “Ce l’ho io”, a “Tiramolla”, a “Farfallina cieca “, a “Dove- sei- che- non- ti- vedo”, a “Formichin formichina”, a “Balla la ballerina”, a “Zigozago”, a “Tric trac marazzule” …?
Non le controllava lei tutte le sere prima che si coricassero e
si incaricava personalmente di istruirle quando le scopriva a fare le cose sporche, tutte quelle cose terribili che non si devono fare e che son peccato mortale e che le sue piccine facevano sempre, tutte, come del resto faceva anche lei ma solo quando, nascosta, a notte, nella sua severa camera da letto d’istitutrice pensava e ripensava, insonne, alle scuse balbettanti e colpevoli delle fanciulle scovate ad accarezzarsi, a sfiorarsi l’un l’altra con le labbra e altro altro ancor più terribile e bellissimo nella tassonomia dell’Inferno … dio mio ! dio mio salvaci dalla tua ira giusta e santa, salvaci dal peccato nel quale, meschine siamo

precipitate, Signore, non castigarci con le fiamme dell’Inferno, prendici con Te, guarda, guardami nel mio letto sfatto ed afro, guarda come mi contorco nello spasmo della contrizione, sono tua, non essere troppo duro nella tua vendetta, guardami qui, ora, sono ancora giovane, sono ancora bella, i mmiei capelli sono ancora scuri e liberi qui, sul cuscino dove li ho sciolti, la mia pelle non è ancora avvizzita, la mia carne è piena, i miei seni costretti nei loro corpetti sadomaso puntano ancora la luna, guardali Signore, sono tuoi, sono tua …
Mama Beha finì la sua operazione e si asciugò le dita sulla gonna che tentò di richiudere .
Tirò fuori dalla borsa di vimini la sua bottiglia di rosolio e la stappò scolando giù alcuni sorsi .
Il sole illuminava a tratti fra le nubi la città terribile delle cinque pomeridiane .

Il bandito accese una sigaretta e, accortosi di aver finito i cerini, buttò via la scatola con gesto deciso . Giù nel metrò
alcuni musicisti stavano dando vita alla jam session della settimana . In superfice un ragazzo albanese era stato bloccato sul tram dai militanti del “Fronte Tricolore Occidentale”, gruppo di giovani diportisti che alternando le visite all’università del Sacro Cuore con quelle allo stadio di San Siro erano enormemente preoccupati per le sorti della cultura europea dato l’avanzare dei terroni di tutto il mondo guidati dal complotto americano-giudaico-massone che aveva avuto inizio nelle lotte per un giusto salario agli operai delle fabbriche e delle officine e nella giornata lavorativa di sole otto ore -solamente!- , sinistra profezia di una umanità non più saggiamente guidata a massacrarsi reciprocamente dai buoni Re taumaturghi, dagli hobbsiani Tiranni dinasticamente ricchi di sapienza e virtù preclari …
Il giovane albanese, soccorso da due volanti della polizia, fu quindi multato perchè non in possesso del documento di viaggio e quindi tradotto in questura per essere espulso dalla città in quanto “indesiderabile” esprimendo così il pensiero di tutta la popolazione lombarda, notoriamente fastidiosina bella bimba bambina, che di poveracci affamati ama solo quelli con due belle tette, giovani e disponibili a far sfogare l’individuo maschio occidentale tricolore in più modi e, naturalmente, al riparo da occhi indiscreti …
Il poeta tornò a casa e Serena non c’era più: aveva lasciato un biglietto sulla specchiera absburgica : “Caro amore mio, mia bella bomba di passione trallallà, parto volontaria per il fronte, vado a difendere il Ponente dal Levante, dal Meridione e dalla Tramontana, stammi bene, tornerò spero presto, spero non mutilata.
tua Serena bambina passerotina ” .
Fu in quelle ore che le armate arabe di Alì Aladin Abu Shaker passando i monti dell’Atlante, dopo aver distrutto Ceuta e le sue guarnigioni spagnole e francesi, attraversarono Gibilterra su canotti e barchini e invasero Granada e l’Andalusia passando la popolazione a fil di scimitarra .

Ci separammo giù per il viale . Io me ne andavo a fare l’arte e lui se ne andava giù per il filo dell’acqua .
Pioveva nuovamente, l’aria era libera, Lollo vendeva acidi in via Lulli e si credeva Gesù Cristo, solo che era meno sfortunato del Figlio di Dio e più antipatico .
L’indomani era un violino rotto sul davanzale . Si sarebbe bevuto un bicchiere di vino rosso e fischiettato “La bella Gigogin”, e cominciò a tirare vento .

Diomio come son triste, vorrei aver vicino qualcuno dolce e buono che mi consoli un poco …
Mi consolerò da solo cercando fra le fiabe rilegate e nascoste su in quel veccio armadio .
O uscendo fuori, via, nel deserto fra la luce imbirbantita del sogno .

Sono la luce che viene
la nave in balia della tempesta
sono la mano del furfante che borseggia
quella dello sbirro che ammanetta e arresta
sono la gonorrea, il mal di schiena
il mal di testa
sono la barca vuota che
cozza quella piena
sono la mano spezzata del pilota
l’occhio del pirata
il sorriso

sono il latte versato
il tuo pianto, bambina,
sono la sera angosciosa
l’alba tragica
la Cina misateriosa
l’ultima mattina d’inverno
a Mongardino
– Maggio sereno –
sono il passo in danza della bambola
il burattino in viaggio
l’aedo che decanta il vino rosso
sono la mania di persecuzione di Al Barabba
la linea della mano che assomiglia ad altro
la paura del cortile vuoto a primavera
la pioggia che non sa capire
la nebbia, il non visibile
l’orrore
l’amore che non sospettavo
no .
“Grande cielo mi sovrasta:
folle corsa!”

12 aprile 1993

TRAKKS

Stivali scuri
che affondano nell’erba

tracce di piedini in danza come di ballerina
come di spirito guida
estetica sopita di pirata
si china a terra
il cercatore d’animo marziano
reggendo la palla ed il fucile
sospiroso

Ci siamo sfuggiti da tempo
– Chi siamo ? –
le oche abbattute nel laghetto
morte all’alba della marina consumata dal vento
– Dove andranno ? –
sudato al collo del somaro stretto stretto
– Li prenderemo –
– 0 non mi chia,mo piu Menocchio –

tracce di farfalla nel fango
che lassa la piova in tera

tracce di muschio sulle pareti del mio cuore
ora ch’è autunno
di torbiera altèra
romagnola  .

Il gruppuscolo, la banda,
l’orda,
trotterellando
ci metteremo alle calcagna della scimmia
dopo cena.


( Raff BR Lazz   28 Ott 93 )

(Valle di Savena BO)

Senza titolo

Cos’è questa pieggia lenta che
va su i campi e la strada e
leggera mi solleva la lingua
e la balbetta ?

Acqua sospesa che
mi penetra e
insonne deliro parola
sudate
nelle tue braccia innameréde
pallidine
di nebbia
di fesse che ‘l fuma
a la sira,
usgnot

sospensioni

risvegli
da brevi insumiarsi
senza significati
finalmente
oltre la curva.


raff bb lazz 1993

Dormiveglia

Poemetto in forma aperta
con frammenti musicali e
di danza .


Oltre la notte un sonno lieve d’alba leggera
sole acceso lungo i giardini fra i cortili nelle
terrazze a primavera
luce che filtra fra le persiane socchiuse a poche ore e
il letto ampio come la nuvola nell’ombra bella del sogno
il tuo corpo che respira piano
fra le lenzuola aperte come vele al largo nel golfo della
pacificazione universale dei sensi
il tuo corpo abbandonato in una quiete di dormiveglia

nell’ombra della stanza che si avvita al chiarore del mondo
rotonda e incontrastante essenza di estetiche sfuggite …

Quindi l’esplodere delle consapevolezze
la fiera del segno
l’illusione
l’assurdo
l’essenza :
la vita .

Dinamica aperta
carta scoperta
il mio passo s’allieta sul marciapiede del vialetto che porta
alla tua casa
e tu dormi
ed è primavera oltre i vigneti in amore fra le lor foglie
e sotto i tigli del viale
presso le caffetterie ostarie e fuori
dalle scuole superiori
i ragazzi e le bambine sedute sulle panchine
si passano di mano il senso ed il nonsenso
con colori vari e segni e sembianti e sigarette bianche come
gessetti
origami celesti di purezza
cannabis indica
erba medica
cotoncini chiari a fasciar le membra pulite come stelle a notte di
Marzo sventolino

passa il camioncino del fabbro
piegandosi in salita
è giallo
scintilla nella lama di luce che lo sfiora
barbaglia oltre il muretto scrostato
oltre l’aiola
mi passa sobbalzando
macchinando farabutto il suo ferrame

ed io compro due fiori ed il giornale
un toscanello che accendo e butto
per farmi l’alito
solo per quello

so che ci baceremo e so che
tu mi bacerai la bocca dicendo
“Che denti grandi che hai !”
e io, che son poeta ma so quel che basta d’antropologia
non dirò nulla ma
ti stringerò a me e ti sfiorerò con le dita il naso
appuntito e tu sorriderai dicendo
“Ehi!”
ed io, che son poeta ma so quel che basta di psicologia
non dirò nulla ma
ti carezzerò i capelli
lievemente,
i cari tuoi lunghi capelli in onda sparsa e salsa
capelli belli affaticati dall’andare
e tu chinerai il capo sfregando il tuo volto sul mio petto
e mormorerai sciocchezze
e io, che son poeta ma conosco ciò che serve di fiabe e filastrocche ed altre fantasie del mito
non dirò nulla ma
ti scioglierò i capelli, ti solleverò in alto
fra le mie braccia addolorate
soccorrerò con un dito le labbra tue impazzite
quando leggiadra
distesa sul divanetto chiaro
in costa alle tende pirate di mezzogiorno quasi l’una
mi darai il paradiso della tua bellezza e del tuo
nome,
ti curverai su me quando io
mi sarò curvato su di te e
mi dirai il mio nome in cifra dorata
ed io, che son poeta ma consapevole d’esser animale anche,
anche gatto in volo soffice ma rapace sul tuo cuore,
anche uccello migrante oltri i ricordi dei morti che tornano
ad autunno e sfumano con le rugiade azzurre di mattino,
io che so d’esser sciamano troppo umano
e oliva da bar infissa nel bicchiere a collo lungo,
annegata nello spiritosanto,
io che so d’essere sasso di cava ucciso dalla mina e d’esser
sabbia di fiume e
d’esser la noce del cocco sull’isola del Sud e
d’esser la stella marina nell’acqua salsa di scoglio, di barriera corallina infuocata di tramonti corsari e
vento anche, e vento di atmosfere terribili e ammalate e pulviscolo di luce che filtra fra le tue persiane socchiuse,
io che so d’essere il virus della polmonite
mi perderò in tutta la tua complessità
mi svelerò singhiozzo e respiro nella tua banalità
mi contrarrò e mi aprirò al tutto e al niente che darà il delirio al poco e al nulla un sasso osceno
scagliato da mano innocua e bambina .

Ma non ancora è la soglia della tua casa,
qui è la sassata matura per una vetrata lustra e scintillante
del Marzo ch’è già Aprile o Maggio,
Fiorile, comunque, terra di semi e segni, nidificare,
e rami d’albero in sconfinare sulle teste dei signori a spasso con la “Gazzetta del Cuculo” nella tasca della giacchetta e
una paglia incendiata fra i denti gialli .

E’ mezzogiorno quando busso alla tua porta azzurra e
fischio modulando il grido del cardellino .
Suonano le campane come se fosse la Pasqua di Redenzione
ed invece tu sai che la Rivoluzione è ancora da venire

Attendo .
Dove sei ?

Ecco : stai uscendo dalla porta posteriore, dov’è l’orto,
con quei pantaloncini celesti e la camicetta rossa
e prendi la bicicletta,
quella che fu dono di Paola Martina Erminia Elisabetta,
e te ne vai giù per la strada pedalando un poco
rotolando veloce .
Ti scorgo, do una voce,
chiamo il tuo nome di poco conto ma
io, che son poeta ma ho alcune nozioni di fisica e chimica
mi rendo conto di non poter far altro che
sedermi qui
sul gradino verde
davanti alla porta azzurrina con pomelli in ottone e ferro battuto
ch’è la porta di casa tua,
sedermi con il mio vestito chiaro e il giornale piegato ed i miei, i tuoi fiori
ed aspettare .

L’una
le due .

Le tre,
le quattro :

Le cinque ed ho voglia di te,
di un tè con i biscotti e una fetta di pane con un po’ di formaggio e vermi, di una trisonata in Re minore, di un po’
d’ombra .

Le sei ed ho sonno .

Le sette e tramonta
il sonno il sogno il sole
nella grande aranciata dei tetti delle case coi fili della luce i fiori in guerra con gli innaffiatoi, i camini che rotolando giù a causa di gatti grassissimi in processione funebre sui tetti si schiantano a terra scacciando i marmocchi alle cene i cani rognosi ai cantoni fra i lumi già accesi .

Le otto mi decido e giro dietro la casa,
vado nell’orto e mi sdraio nell’insalata dove so che
mi addormenterò .
Ed infatti mi addormento .

E sogno .

Dinamiche, nuove dinamiche .
La malattia del sole e del ferro e del fuoco ci fa male
lo so, non ridiamone, non parliamone troppo,
anzi,
non parliamo più .

Stiamo in silenzio .

La nave scorre lungo i mari notturni, onde scure lambiscono i suoi fianchi, ombre tenui scivolano sulle sue vele di fantasma, un grido risuona a prua : “Terra ! Terra !”

Così, ma non sempre, sbarcano i pirati .
Salgono in città, prendono un caffè e vanno al lavoro .

La piazza è al sole, la piazza è piena di gente e di parole, il tutto pare il frammento della noia che condannò Noè alla droga e i suoi figli al lamento ideologico .
Certo, cantò l’aedo lombardo, sarebbe meglio che si legassero una macina al collo e si gettassero a mare
piuttosto che non farci cantare
e non più sognare per dire
narrare civiltà e alterità lievi
anche cibernetiche di spazi nuovi intenti e menti ultraviolette
ma solo illusioni barbariche
solo passive meditazioni visivamente meschine …..!

Ma non tutto, no,
lo dirò io che lo canto e lo disse l’Abate
in volo sul mio spiritosanto
non tutto ciò che è sogno oggi
che canto ai poveri e agli sfruttati
non tutto è noia

pirati che non bevono caffè ma i tenaci rhum dell’animo sono al largo di Porto Torre e issano la bandiera multicroma del teschio con le tibie che significò più d’una volta “Si muore tutti e tutti si ritorna a far paura o a far le corna alle nostre vecchie amicizie avvizzite, ma se non ci farete passare su queste rotte non facili che pure abbiam scelte vi passeremo a fil di spada, coleremo a picco le vostre barchette, bombarderemo i vostri carceri ed i vostri palazzi di Babilonia con i nostri cannoni artigianali ma efficaci, vi rapiremo le figlie e chiederemo un riscatto ma poi loro si innamoreranno di noi e resteranno a veleggiare sui settantasette mari con la ciurma meticcia, zingara e permalosamente libertaria dei nostri legni
ribelli e gentili, insomma: all’occhio ! ”

E già si vedono quelle piazze accendersi in danze e musiche come se fosse l’animo nostro impossessato dell’utopico vagabondare a dettar legge sulla materia e non il soldo bucato che fa confronto e affronto ad ogni altra mossa a perdere dello spiritosanto nostro

E’ da un cortile di un caseggiato popolare alla periferia della città povera che vedo uscire il Comandante con il suo fucile a tracolla . Lo seguono una decina di ragazzi in pigiamino a righe che tirano pezzi di pansecco ai piccioni che becchettano sul marciapiedi .
Danzano l’alba come un airone che scende le lagune del sogno .
Danzano la guerra e l’infanzia per non morire inconsapevoli alla vita .
Sono i bambini di Sarajevo .
Danzano la danza dei mutilati, come serpi nel colore del papavero.
Sono piccoli handicappati .
Danzano il frutto della loro infanzia muta .
Sono la lunga lacrima che riga il viso del pagliaccio nero .
Danzano la gioia del vuoto, ora, il vuoto che permette la danza, la libertà e la rivoluzione .
Il vuoto ch’è l’esistenza se non l’essenza d’ogni estetica piena .
Possibilità .

Danzano la guerra dei sensi e la sua riconciliazione futura, e il suono filtra come una goccia di fuoco fra i colori delle foglie sopra le teste di paglia delle streghe messe al rogo .
Sono i sensi sconvolti di un uomo masticato dal suo amico gatto nella ciotola , D’inverno non si lascia nulla .
Amore, chiedi il segreto del mio nome !
Amore chiedi le mie dita per i tuoi capelli !
Amore urbano, amore di mezzaparola, distruggi il lembo di corame marcio che separa il tutto dal nulla, il vuoto dal pieno, dammi la morte !
I suoni si condizionano, si disciplinano .
E’l’ora di versare da bere .
E’l’ora di andare .

Un silezio ci abiti per poco .

Mi risveglio sconvolto di nebbia nel campo di patate della tua casa di melagrana di primavera sfiorita .
E’ notte, la luna scintilla oltre i rami del fico
canta un cuculo nel boschetto di sambuco del tuo cortile e,
più in là,
dalla grande quercia pende un burattino,
forse il suo figlio unigenito :
cosmogonie efficaci e colorate si accendono in questa notte di viltà che avvolge la città ed il tuo giardino, il tuo orticello di patata e peperone, di lattuga fresca e morbida, di zucca e rapanello, di melanzana, lampone e fragolina marziana, di morto limone e di fagiolini pastello addormentati fra le stelle come sogni avventurieri
Mi risveglio e guardo
e non vedo luce calda e giovane filtrare oltre le vetrate della
tua finestra ed allora
– tu sai che son poeta ma ho viaggiato molto –
mi sdraio nuovamente nell’erba cipollina e mi riaddormento cullato dal vento che, come
ogni notte
passa frusciando come un sorriso di bambina bruna
nella cheta ombra del tuo giardino
fra i richiami della nottola
nel cuore di questo paese innamorato .

Si apre la terra sotto i piedi della serpe negra
il cielo è chiuso dal tetto di lamiera del nostro errare tristi
come se non sapessimo che mai ma qualcosa si dovrà ben pur
trovare,
amore,
e la luce ferisce i nostri occhi
ed abbiamo gli auricolari cromati per non sentire la sete
che giunge puntuale a far male .
Per questo che spesso si scende, si mette il piede giù e si arriva alla sala correndo alzando polvere e pagliuzze di fieno e di ferro
per questo si sprona il cavallo e si scende di sbilenco dalla collina
dando gli speroni a sangue nel suo ventre
per rapinare la signorina bionda che canta e che viene dalla Cina
per questo talvolta ci fermiamo a guardare oltre i tetti rossi
delle case mute
per vedere un tramonto che ci lascierà soli
sempre più orfani e
spaventati e
sempre per questo che ogni tanto
alla stazione di sosta e di pianto,
alla pompa di benzina,
prendiamo ognuno il nostro strumento e lo posiamo sul cuore
e sussurriamo insieme

Oh when the Saints go marchin’ in
I want to be in that number

per questo, sempre per questo
capita di andare senza sapere dove e se sale la pioggia a
rinfrescare l’aria e addestrare le zanzare
chiudiamo il finestrino, la celata, il destino,
e proseguiamo senza dimenticare
la pelle nostra che s’indora, esplode e si ferisce
per questo, certo,
s’usa alzarsi presto al mattino e uscire di casa vestiti da
impiegati del casello autostradale
per andare a suonare il pianoforte sull’argine del fiume
dove sale la nebbia e la trota
sfugge stizzita,
per questo, tosto si apre il giornale ogni volta
perchè mai cerchiamo l’illusione d’una buona novella che
conosciamo già ?

per altro ?
non per altro ci pettiniamo e profumiamo e
cerchiamo l’unione sentimentale e quella sessuale e sindacale,
non per altro facciamo domande e diamo risposte
sempre in anticipo sulla saggezza
sempre un minuto prima dell’ora esatta
sempre il giorno dopo la Resurrezione di Dio
a infilargli un dito nel costato per poter dire
” Io c’ero !”

non per altro crediamo che il sogno e il senso alto appartengano al genere di allucinazioni e bambinate che le buone pedagogie
hanno scavato via dalle vite e dai loro curricoli
ricorderemo solo l’arrancare furioso dei nostri momenti peggiori
e ne avremo fin nostalgia
quando saremo lì pronti per partire
con il marmo in bella evidenza nella lista spese
senza sogno nella valigia

Inutile andare avanti per di qui è deserto, ci sono solo sassi
e silenzio e
freddo .

Le farfalle gialle si posarono sulle nostre tende canadesi piantate nel cerchio magico della Nazione Aborigena:
la poesia non è cannibale,
l’antropofagia non ha letterati
solo letterature,
miti
riti e religione .

Non era vero, pensarono le guide irlandesi quando
trovarono le nostre ossa,
bianche,
discarnate fino in fondo
ammonticchiate diligentemente insieme a quelle dei nostri cavalli
ossa di letterati grassocci, una leccornia per la tribù degli
Ababa Baramba del Northern Territory .

Il sole eccita il muschio, il bosco è di notte
il quadro è la sua cornice
il vento è nella brughiera in fiamme
il monumento è la preghiera non la sua memoria
la memoria è monumento dell’estetiche

il bosco è di pietra
la nave è vascello in tempesta che affonda
il pirata non ci da più mano, ci ferisce
la notte ci punisce con la solitudine e l’insonnia
il vizio, la follia, il dolore,
la fatica, l’asma,
l’esaltazione
la musica è una sonata di ghironda

La danza è un saltarello di possessione
la fontana è sangue, mònito,
la coppa è vino nero, veleno
la penna un taglio viola di bottiglia, ferita,
il sasso nello stagno da cent’anni, mille ormai .

le unghie sono spezzate, erose,
il gancio gocciola umori strani,
la casa di panna è un offesa, strega,
l’occhio di Alberico e dei nani,
la stanza è chiusa, gialla, una bara

la chiave ha un emblema d’oro,
la porticina non dovrai aprire, mai,
il babbo potrebbe tornare, sai,
lo stivale è sudicio e freddo, dài,
la rosa è morta al balcone .

la stele ricorda i miei sogni, cose
la stalla è un covo di maghe, dimenticate,
le ciglia son tinte e frementi, ideale
la culla è un sinistro ricordo, abortito,
la danza è una macabra scena, rituale di Storia .

Il rospo è un fungo notturno
la mano ha due anelli, d’argento,
la fede si perde tremando, in cento,
il mare è una spiaggia grigia, a sera
il paradiso è perduto, altrove

le risa sono di un folle, osceno
il mostro marino sale, a galla
un muro di pioggia è vento, s’inalza
il suolo è di pietra, duro
l’asceta è ubbriaco, e sputa

Ma Satana altrove e Dio e la Noia e la Verità

Ninna nanna ninna
nanna ninna nanna

Zingari, gente che va
siamo nati ad Aachen e ad Otranto, fra la terra dei Bambara e quella di Papa Zimba, il leone, siamo vissuti a caso dove ci portavano le stagioni e gli amori, le guerre e le rivoluzioni, la fame, i poteri e i confini altrui .
Il nostro animo è segnato da luoghi, oggetti, nomi, corpi, memorie di tenerezza e di tempesta, da linguaggi rasserenanti e inebrianti che consolano e leniscono le paure della battaglia immane, ossessa, inutile che ci sentiamo intorno, dentro noi .
Tutto ciò è la nostra Patria e il sogno che sostiene questi sensi in danza affaticata e sorridente : poeti e vagabondi, consapevoli della grande canzone che andiamo intessendo con i nostri piedi e il chiamare e richiamare .

Oltre il fuoco del bivacco la nota più alta che
alla sommità degli alberi immersi nella notte
ci pare possa definire il nostro esistere
non pienamente forse,
ma quasi in tondo ad esso,
fortemente

Ti ti ti ti
Ti ti ti ti
Ti ti ti ti

qualcuno scaglia la monetina fra le gambe di un toro
la pagnotta consacrata nel fango della strada
la città di baracche lungo il mare sotto la piova
la grande muraglia con il cellario grasso
il traffico lento sotto le scarpate grige
il treno in corsa pieno di prostitute ignude
la stazione perduta nella steppa emiliana
i guerrieri uccisi nel palazzo delle fontane
la mamma che piange e si suicida con un coltello
io che volo
sopra colline distrutte dai missili
sopra il terremoto

io volo in alto e verso il basso
sopra il corpo di Amina Den Den
sopra i miei polsi tagliati

qualcuno apre la porticina e non dovrebbe si sa
la finestrina con le tende arabescate
la portiera della corriera, si va!
la veneziana sulla campagna ch’è Estate …

Zingari, di memoria ed estensione,
pirati derelitti, inventori di mondi alieni,
eccola qui la nostra piccola reveria
poco prima del mattino …

Si scende signori
la nave fa scalo nel porto per giorni
a seguire per quanto
non so
gli amici son scesi con armi e bagagli
la caccia alla tigre è uno svago
i bei marinai son tutti al bordello a farsi leccare la schiena ed
i fianchi
il vecchio nostromo è steso ubriaco sul molo
intorno uno stuolo
di pazzi ragazzi con canne da pesca
più in la una ragazza che vende
pan olio e ventresca
ci si tuffa nell’ampio canale
si schizza la fresca acqua sporca in faccia ai passanti
si gridano ingiurie dai ponti
si mostrano i pugni ai natanti
e passa la ronda
confiscano i dadi al povero Ennio
che bara
si ferma la giocoliera sui trampoli neri
un emiro arabo, Jibril il Mago
mangiucchia lupini
pedalando il moscone giù al lido
biondissime donne dalla pelle dorata
si spogliano al sole
ridanciane
fra bianchi cotoni e poi seta e
cesti di vimini dai forti colori
si parla di sensi perduti
di amori gloriosi e meschini
arriva la palla che
i bambini di Mogadiscio
han fatto con la pelle di Paolo
figlio d’Apollo
fuma il camino del rimorchiatore
giù al blocco dodici gli emigranti
sospirano
e gli anarchici hanno appena finito
di stampare il loro foglio
“Il Risveglio”
che vengono messi sotto sequestro
da un questore maldestro
ipocrita
brutto anche
come un
orco

brutto tricheco !

Mi sveglio che canta un gallo
dai pollai nascosti sotto il garage a due piani dei vicini
di casa tua

mi alzo da terra pulendomi diligentemente il vestito di lino
dalle foglie di radicchio e dal terriccio
mi stiracchio
mi sorrido e volgo il viso alla fontanella dove nuotano i tuoi pesci rossi e due carpe scure
già chetamente assenti a prima mattina

m’aggiusto la cravatta .

Il sole indora i tetti
e l’alba è ventosa e pulita sulla città
si sentono silenzi inattesi
e i tram sospesi ai loro fili d’argento che al vento
scivolano e tintinnano
e si sciolgono
come stelle di ghiaccio fra le dita nella
luce d’Aprile

Non ci sei ancora,
aspetterò .

Colgo una decina di viole selvatiche oltre il muretto
del tuo giardino
ora
posso legarle con un filo di lino
strappato dalla tasca scucita della giacca
e farne un mazzetto
per quando arriverai .

Passeggio avanti e indietro e mastico
la mentuccia
so che ti bacerò e che
i miei denti bianchi scintilleranno
nella tua gola rossa come il cuore della Fata Turchina
so che
quando giungerai
mi abbraccerai e che
vorrai subito sapere che cosa ho fatto
dove ho passato la notte e
dove ho lasciato il mio animo
e la mia traccia
in quali mondi
in quali universi ho viaggiato e
come mai i miei capelli e i miei baffi
sono pieni di terra e di erba cipollina
e ho quella tasca scucita e
quella benda pirata
e una patata nel taschino
al posto della matita

E’ mezzodì, sento le campane e l’odore di
aglio ed olio,
fa un po’ caldo
il sole è alto
ed il gradino verde davanti alla porta di casa
è caldo come un nido abitato

qui non c’è nessuno
casa della bambina
dai capelli turchini
qui sono morti tutti

Ed ecco che sento il rumore di un campanello
su per la salita
arranchi con la tua bicicletta scura saetta di temporale
– ma sei la mia estate, la mia spiaggia dorata! –
inseguendo il camioncino giallo del fabbro
che torna a casa per pranzo .

Non ti chiederò dove sei stata
la notte di Giovedì
di dove torni

non ti chiederò niente
perchè sei tu che domandi sempre e
di sogni e di
viaggi e d’avventura

E mi versi il tè alla menta con un po’ di rosa canina
sorseggi dalla tazzina e sbricioli biscotti secchi
sulla tovaglia chiara ricamata dalla nonna
ti vai a fare un bagno profumato nella tua
tinozza di rame
mentre io sonnecchio sul divano fumando il mio
toscanello
tanto per farmi l’alito buono
solo per quello
so come mi baci e quanto lungamente
che per te è un nulla di dar l’amore sul serio
con il sorriso e il corpo agevole di
farfallina notturna perduta fra i soffitti
del mio animo nobilitato al giorno
so che ami il tabacco fra i miei denti
quasi come il profumo del rosmarino
fra i capelli o
sul mio petto
conosco alcune abitudini preziose dei tuoi sensi
anche se tu non manchi di rammentarmele
sempre
comunque
ed oggi anche
mentre esci dal bagno avvolta nella tua vestina azzurrina
profumata di lavanda di Arles
con in mano la bottiglia del latte per i gatti che
scorrazzano dentro e fuori da porte e finestre
fra le gambe dei tavoli
su e giù per le poltrone
sotto, dentro, oltre le mensole, gli armadi e le scrivanie
miagolando
so che poi si andrà dalle tortorelle
e infine si penserà a noi

sicuramente mangeremo insieme
qui,
su questo tavolino di bosco profondo
e resteremo ad aspettare la notte
col lume acceso vicino alla finestra
abbracciati
alla vetrata
facendoci chiaro
con gli occhi
per guardare oltre
per riuscire a scorgere almeno
un’ombra
al di là dei nostri due specchi

Quando la notte sarà nela sua ora più profonda,
nell’abisso,
dormiremo insieme .

Se al risveglio
ancora una volta
non avremo viaggiato negli stessi luoghi o
ci saremo incontrati per pochi istanti appena
inizieremo a raccontare
da capo
tutto

a partire dai capelli imperlati di luce mattutina
dalle mani aperte come possibilità sul cosmo
dalle nostre ciglia sfatte dal sonno
dalle nostre gote odorose
dal nostro sorriso
in ogni istante differente
per ogni respiro
per vie diverse e complesse

ancora .


Raffaele BB Lazzara
Milano, Estate 1993
a Lucrezia .

“…Morire,dormire,…Dormire!
Sognare forse.

Ah, ma qui è l’intoppo …………….”
(W.Shakespeare)

quella benda pirata
e una patata nel taschino
al posto della matita

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