Capitolo 1
Il cielo blu scuro era percorso a oriente da qualche nube nera che si sfilacciava in un’esplosione di gialli e rosa e carminio nella bolla d’ un’aura azzurra, quasi lattea, che stemperava in formazioni stratiformi viola o blu o verde scintillanti ai bordi di riflessi dorati e luminescenti.
Avevamo le montagne davanti, nell’oscurità, e la luce si proiettava dalla nostra destra verso i campi intorno a noi.
Campi di biada, vigneti, prateria, attraversati da fossi erbosi e boschetti di gelso, ontani, salici e pioppeti.
Tutto pareva fermo in quel momento liminare, non si muoveva una scheggia di vento e l’inchiostro denso della notte avvolgeva ancora lo spazio davanti a noi.
Improvvisamente si udì un tonfo.
Era Gengis Kahn.
Era scivolato in un fosso.
Di colpo, quindi, un rumore forte, come un battito d’ali, come l’alzarsi in volo di un uccello dalle piante di crescione che circondavano la riva.
E’ lui! E’ lei! Maledizione! Sparate!
Iniziammo a correre come dannati verso un qualcosa, un lucore che si stava allontanando per i campi fluttuando.
La terra bagnata, il fango, ondeggiava muta sotto la carica dei nostri piedi inzaccherati.
Davanti a noi un debole lamento bianco che appariva e scompariva nel buio.
Pareva un fuoco fatuo, candido, sospeso a un metro da terra o forse tremando in corsa fra le frasche fradice di rugiada.
O forse era piuttosto una bandiera, uhn panno bianco agitati nell’oscurità da una mano beffarda.
Noi correvamo, veloci, schizzando fango, scivolando, ansimando.
Davanti c’erano i cani, via veloci per i prati, saltando a grandi balzi per traversare i fossi.
Dai! Dai! Forza che la prendiamo! gridavano Gengis Kahn e Al Bubez ruggendo, rauchi e imbestiati
Poi quella cosa, quella lucetta svanì nel nulla, i cani si persero a caccia di topi e Gengis Kahn scivolò per l’ennesima volta slogandosi una caviglia.
Maledizione!
Il sole si stava oramai alzando dietro le colline di Manzanillo e la terra morbida di rugiada e di pantano avrebbe fra poco accolto nel suo abbraccio un pullular di insetti sgradevoli.
Torniamo al campo! ordinò Gengis Khan chiamando a raccolta i cani e noialtri.
Al campo.
Eravamo in sette giù al campo, un paio erano andati a cercare provviste.
Eravamo accampati sotto un tendone militare nella ex zona industriale di Brezàn.
Gengis Kahn, uomo grasso e bruto, di poche parole, Al Bubez , giovane ma già depravato, i fratelli Mapuche di Corona, gemelli, l’Indio Sabadini mio sodale e con me arruolato in quella banda di straccioni con contratto di collaborazione coordinata continuativa.
A ore.
A cottimo.
Per dare la caccia a un inopportuno molestatore del quieto riposo dei contadini e degli operai di quelle terre maledette.
Formalmente eravamo stati assunti come operai generici in questa cooperativa di disinfestazione e derattizzazione gestita da un vecchio anarchico della Baja, el viejo señor Mata detto Matanza.
In realtà dovevamo dare la caccia a un qualcosa di indefinito, una pantera nera, un fantasma, chissà cosa mai.
Puah! che schifo Osodemierda! mi disse Al Bubez sputando una buccia di lupino.
Si: Oso, de, mierda : io.
Cos’è che fa schifo, Bubez? chiesi
Fa schifo tutto, fa schifo s’sto lavoro, fa schifo ‘sto posto, fa schifo il bere, fa schifo il mangiare e fai schifo anche tu!
Mmm!
E poi… Poi fa schifo quella roba a cui stiamo dando la caccia! Cazzo! Il capo dice che è un animale scappato dal circo, una pantera, un gorilla, sai te! Ma io dico che è un fantasma!
Un fantasma? Non credo ai fantasmi.
Ah no? Ma io l’ho sentito il Gengis Kahn a parlare col señor Matanza! Sai che diceva il vecchio bastardo?
Cosa?
Diceva che questo è un fantasma! Lo spirito di Ariel che torna a tormentare i vivi!
Lo spirito di chi? Bubez! Sei uno scemo! Credi a tutte le scemenze che senti! Chiaro che il mondo va in merda, perchè sono tutti creduloni come te! Il primo che apre la bocca e da fiato alè, via, abili e arruolati!
Ah si, caro orsacchiotto futtutu!? E tu non sei qui a dare la caccia a questa bestia misteriosa, eh, dottore? Lo sanno tutti che sei studiato tu! Cosa ci stai a fare qui con questi pezzenti, di?
Bubez, lo sai che io e l’indio Sabadini abbiamo famiglia da mantenere, non rompere le palle!
Ah, bravi! Forse per questo vi cacate in mano quando si deve passare all’azione!
Stai all’occhio Bubez, che te ne cavo uno di quei tuoi occhietti da pantegana e te lo ficco su, in bocca!
Era una vita dura sulle Colline Orientali e nel Collio in quei fottuti tempi, e parlo di non più di dieci anni fa.
Una terra di confine, una frontiera piena di disperati, di sbirri e di gente senza scrupoli
Le tribù indie locali vivevano oramai in riserve, la gente abbruttita dall’alcool e dalla disperazione aspettava la morte senza grande partecipazione.
Giravano un sacco di soldi, si, si diceva, pareva, ma non si vedeveno mai, forse perchè passavano sempre nelle stesse mani, quelle dei signorotti locali, dei latifondisti, dei mercanti e dei piccoli padroni di fabbriche di legname.
E, come il cacio sui maccheroni di quelli che comandavano, una massa di immigrati si stava riversando senza sosta in quei territori lavorando per quattro carantani, senza diritti e senza un futuro se non quello solito dei servi: servire e morire.
Anche io ero arrivato da lontano e imbarcato in alcune avventure senza speranza mi ero ritrovato peggio di quando ero partito senza un soldo e senza una idea intelligente per farmene qualcosa.
Come capita, avevo poi messo incinta la figlia del cacicco indiano Pennabianca, la non più giovane Luna di Traverso.
La comunità di Luna mi aveva comunque accolto, forse per il miracolo che da quella vecchia donna indiana potesse ancora nascere un bambino.
Che nacque, alla prima luna d’estate, una bella bambina cui posi nome Marianna.
Trovai quindi lavoro in una scuola per idioti di quell’accampamento dove sfruttai le mie conoscenze di pedagogia e canto jondo per non farmi immolare dagli indigeni nel dì della festa.
Ma le cose non andavano bene e così mollai quella gente disperata e insieme all’indio Sabadini ed alla sua sposa Gabrielita occupai una vecchia casa diroccata nel pueblo di Krmìn dove , con l’aiuto del vecchio Riz, capataz di braccianti un tanto al chilo, nonchè sfruttatore di benandanti, poeti e ubriaconi della riserva di Insìc, ci sistemammo.
Lavorare era un problema.
Ci dedicammo quindi alla coltivazione di piante illegali, alla cardatura della lana, alla derattizzazione ma soprattutto alla caccia al’uomo, un lavoro da maledetti sbirri che all’epoca andava alla grande.
E furono la luna e i falò, e quindi le stelle belle stelle sul’accampamento.
Non pioveva più e si vedevano le stelle.
Gli altri cacciatori mangiarono carne alla griglia e bevvero vino e grappa.
Erano come animali, tutti, animali feriti senza più una tana, un covo, un’anima.
Bevemmo tutti vino e slivoviz intorno al fuoco che pian piano si andava spegnendo.
Quindi ci addormentammo russando, meno Gengis Kahn che, come sempre faceva il primo turno di guardia, gli occhi gonfi a cercare un’eventuale spicchio di luna, il lungo sputo a insozzare le primule.
Verso le due di notte un grido animale ci svegliò.
Balzammo tutti in piedi, scossi dall’adrenalina che si era ricordata di bussare alle porte delle nostre arterie congestionate .
Tutto era immerso nell’oscurità.
Che cazzo è!
Che cazzo ne so!
Gengis Kahn si agitava con la torcia spenta in mano.
Maledizione!
Restammo dieci minuti così, in piedi nel buio, in silenzio.
Tutti in piedi nel buio come topolini ciechi in un secchio, cibo per le fiere.
Maledizione!
Quindi tornammo a dormire.
Capitolo 2
La mattina dopo Gengis Kahn mi venne a cercare.
Hola!
Ciao, dimmi.
Era una giornata nebbiosa di Ottobre ancora calda e afosa, bella come può essere una giornata di Otobre ai confini coi Colli Orientali.
Gengis Kahn aveva dormito poco o niente e si vedeva.
La sua faccia gonfia e butterata era particolarmente ributtante in quella mattina fottuta.
Gengis Kahn era un bisiac del Bisiakistan Meridionale, un uomo quindi forte e schivo, uso ad ogni fatica, abuso ad ogni intossicazione, un coraggioso, un malfidato e un bastardo.
‘Scolta omo che te digo, disse.
Dimmi.
Cuesta no xe una storia de pantigane, de sorzi o de tepisti che i vol barufar, no?
Ah.
Gavemo a che far con un cualcossa de bastardo! Maledizion!
E allora che facciamo?
No savesi… mi domandaria al Mato, a Matanza digo, mi domandassi armi de fogo …
Armi? Pistole?
Pistole, sclope, fuzili … no sò ben …
Ma se diamo la caccia a un fantasma non serviranno a nulla, vecchio mio!
E feci per ridere ma mi fermai nel vedere quella faccia di granduomo stravolta in una smorfia d’ansietà sincera.
Carajo!
Era l’indio Sabadini che si era avvicinato a noi.
Vignì, vignì! il bastardo bisiac fece cenno con la mano.
Lo seguimmo ad un dipresso, lungo le rive del Judri, un fiumiciattolo che correva lì vicino.
Ci sedemmo su una pietra e restammo un poco in silenzio a guardare l’acqua che scorreva.
Poi Gengis Kahn iniziò a raccontare.
Cuela del spirito de Ariel la xè una vecia storia. Conosè “La Tempesta” di Shakespeare?
Nessuno ne sapeva nulla.
Beh, la xè una longa storia, la ga ha a che far con el poder e la libertà, la moral e via dizendo e ghe xè cuesto spirito, Ariel, rapresenta el spirito dela moralità, de la inteligenza, disemo, del disernimento..
Ah
Bon, insoma, par che una volta cuà la viveva una putela, i la ciamavan Ariel, una femena belisima, de bòni prinzipi e con un cuòr grande cussì, che ne la vida la ga vù tanto de bazilar e una note de luna piena la se gà mazada butandose nel fiume
Quale fiume?
Mah, no so, el Isonzo, el Nadisòn, la Versa, el Judrio … no so, fiumi no manca
E allora?
E alora la torna in forma de fantasma par ricordar a i vivi e ai morti la sua triste storia …
Pensa te che storia del cazzo!
Bòn
Restammo un poco lì, sulla pietra del fiume a pensare e a fumare.
Poi il Gengis Kahn si alzò e se ne andò via e dopo anche l’indio Sabadini
La giornata stava volgendo al bello, un venticello spazzava le nebbie e il sole d’Ottobre riscaldava le pietre.
Cullato dal suono dell’acqua dello Judrio mi distesi e ben presto mi addormentai.
Mi risvegliai, come da un sogno agitato, che era oramai mezzodì.
Nel bosco non c’era più nessuno.
Saltai in piedi e tornai all’accampamento.
Nessuno.
Piovve.
Mi fumai una sigaretta.
La pioggia smise.
Raccolsi quindi la mia borsa di cuoio e m’incamminai verso Krmìn dove arrivai in venti minuti.
Il paese era pieno di fango e iniziava nuovamente a piovere, le strade che salivano verso il Monte Cuartìn sarebbero presto state spazzate da torrenti d’acqua fangosa, come sempre.
Per il momento solo gruppuscoli di indiani e di immigrati ubriachi ciondolavano per le strade sassose e per le vie, magri, cenciosi, assenti, avvinazzati, bagnati e intirizziti, consolati in quella loro alcoolica bestialità dal fallimento completo del loro esser stati un giorno, più o meno distante, degli uomini.
Raggiunsi, schivando il fango, le gazzarre degli ebbri, le litanie dei questuanti, le profferte delle baldracche e i posti di blocco degli sbirri la casa diroccata dove abitavo con Leo, il trapper, Gabrielita e i loro tre bambini, i tre gemellini, sempre giocosamente iperattivi.
Lo spazio che avevamo occupato in quel palazzo, uno dei pochi in quel paese alto più di tre piani e perciò chiamato dagli indigeni “el Grattacielo”, era un sottotetto, uno dei pochi vani non ancora crollati o invasi dall’acqua.
I figli di Gabrielita e Leo mi vennero incontro correndo giù dalle scale, tre furfanti mori dagli occhi di tanguero con i capelli nerissimi e ricciuti irti sulla testa.
Hola, Lola, donde tenès la pistola?
Cerca del corazòn, bim bum bom!
Li chiamavo per gioco Chè, Parcè e Parcè-Nò, quei ragazzini.
Su, nella cucina riattata, il vecchio Riz stava pontificando con un mate in mano, raccontando al frigorifero giallo le sue ultime conquiste amorose.
Non ero in vena poetica e mi buttai sul mio materasso, completamente vestito, stivali infangati e tutto, con una gran fame in pancia e un piccolo seme di gioia in quelche punto della colonna vertebrale.
Capitolo 3
La sera andai su, verso la piazza del Mercato, con l’idea, in realtà un’idea recalcitrante, annoiata e impigrita, di trovare qualcuno della mia banda di cacciatori di teste per capire come prosegue la nostra partita con il fantasma shakespeariano di Ariel.
Non pioveva più e il fango incominciava a raggrumarsi in bolle che seccheranno forse se l’acqua non ricomincerà a cadere o qualcuno ci camminerà sopra.
Io ho i miei stivali ma è pieno di bambini che giocano a piedi scalzi, magri e stracciatim le loro facce bianche e viola, sporche di terra e di polvere avvampano di febbre mentre corrono dietro ad un pallone fra le gambe dei passanti e delle mignotte.
E’ già scuro, ma il cielo è basso, nella foschia s’indovina appena il bosco del Monte Cuartìn che sovrasta la piazza.
Al bar Rullo una brigata di manovali disoccupati ciondolanti sugli scalini del patio sta berciando e bevendo attingendo da un secchio di plastica pessimo vino inacidito.
Fra di loro, piegato in due, forse addormentato, quel mentecatto del Bubez.
Ohi!
Uno scossone lo fece risvegliare da quelle croste marcescenti che dovevano essere i suoi sogni, se mai ne aveva.
Ecchicca’! Ah, sei tu…
Bubez, che succede, va avanti la caccia
Il gaglioffo mi guardava con la sua faccia bludiprussia nella quale erano sputati gli occhi giallastri arrossati e acquosi.
Vonde! Finita la storia, a caccia è chiusa!
Che cosa è successo?
Il capataz ha avuto la buona idea di chiedere armi da fuoco a Mister Matanza e quello ci ha mandato tutti a quel paese.
Lavoro finito?
Tu che dici?
Lasciai quel mariuolo a vomitarsi l’aceto sulle brache e me ne tornai a casa.
Raffaele BB Lazzara, nato nel 1965 a Düsseldorf, cresciuto a Milano, ha vissuto fra quella città, Ginevra e Bologna fino al 1994 quando si è stabilito a Monfalcone, la città di sua madre.
Scrittore, musico e pedagogista libertario, inventore di dinamiche ludiche, impegnato nell’ambito della produzione di idee per la cultura popolare e minoritaria ha collaborato con Usmis, Radio Onde Furlane, Zuf de Zur, Aghe Clope di Guido Carrara e sorelle, Tras – quaderni ladini, La Comugne, fondando il collettivo poetico dei Trastolons e la Scalembre Big Trans Band e collaborando con poeti, scrittori, musicisti, artisti e inventori culturali del Friuli.
Amante dei gatti, della birra, delle biciclette rotte e della poesia di strada, padre di Marianute, vive da due anni a Cormòns, nel Collio.
Impegnato nel lavoro di operatore di base in ambito sociale ( psichiatria nella Bassa Friulana, operatore di strada a Trieste, educatore con persone diversamente abili nel Medio Friuli ), in quello dell’animazione con bambini ( Associazione Guido da Variano, progetti Trastolainis e Rizoma in Argentina 1999-2002 con Ente Friuli nel Mondo) sta costruendo alcuni progetti musicali e di arte di strada ( Mariposas Peligrosas con Leo Sabadini, Purcìts 04, – Ariel 04 -, Asfalt 2.1, Milanàt Malnàt 00 – con Abbominevole XXX – ).
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